Strappare lungo i bordi
voto: 7,5

(Netflix)

 

L’ELOGIO DEGLI ‘IMPICCIATI’

CON L’ANIMAZIONE DI “STRAPPARE LUNGO I BORDI”, ZERO CALCARE RIASSUME LA SUA POETICA, RIPROPONENDO L’UNIVERSO NARRATIVO E IL FLUSSO DI COSCIENZA DELLE SUE ACCLAMATE GRAPHIC NOVEL, IN UNA VESTE ANCORA PIÙ RAPIDA E PROFONDA, GRAZIE ANCHE ALL’USO DEL DIALETTO ROMANO CHE ELIMINA IL SUPERFLUO E CREA SCORCIATOIE ESPANDENDO E RAMIFICANDO IL SENSO DI OGNI SUA RIFLESSIONE.

Senza prendersi troppo sul serio, Zero Calcare mette a punto un breve ma acuto manifesto generazionale che abbraccia, con accettabile approssimazione, tutti coloro nati dal 1968 in poi; quelli cioè cresciuti sotto la cappa del post-moderno, catturando con un magnete i paradossi esistenziali e il senso angoscioso di precarietà che si è fatto via via più rognoso con il passare delle generazioni e l’opacizzazione delle certezze.

Senza prendersi troppo sul serio, perché l’ironia viene prima di tutto. Niente manifesto, allora. Meglio parlare di fanzine militante o di un breviario di sopravvivenza animato. Perché l’ironia è sia status ontologico, sia arma di difesa preventiva contro gli attacchi di chi sicuramente ha sofferto per bisogni più vitali e necessità decisamente più primarie (“Guarda, me sa che è peggio annà a lavorà in cantiere”). A ognuno la sua adolescenza. E soprattutto a ognuno i suoi tempi per uscirne, se mai sia possibile uscirne.

Zero Calcare non fa altro che rielaborare un cliché, con candida e bonacciona schiettezza: mostrare i fangosi stati d’animo di un ragazzo quasi uomo con un piede ancora ben piantato nell’oasi della spensieratezza e un altro che vaga a mezz’aria, incerto se compiere un passo su un territorio che si teme sia troppo franoso.  Guardandosi continuamente indietro, in uno ieri perpetuo, temendo il tempo che è passato/che sta passando. E sfidando con terrore la brutalità del bilancio esistenziale arbitrario dove a gelare il sangue è la mancanza di una unità di misura collaudata e inconfutabile.

Sei cintura nera de come se schiva la vita. Quinto Dan” gli dice la sua coscienza che ha il corpo di un armadillo e la voce di Valerio Mastandrea. E ancora: “C’è mai stata in tutta la tua vita, ‘na sera che te pijava bene?” si sente dire, da un immaginario nipotino, uno Zero Calcare ormai appassito nel letto di morte, a rimuginare sulla sua ignavia.

Come ci è finito nel letto di morte? A colpi di digressioni, di ragionamenti rapidi e fiammeggianti che costituiscono il motore delle sei puntate di “Strappare lungo i bordi”, dove la trama che porta il protagonista, in compagnia di Sarah e del coerentissimo e assertivo Er Secco (“S’annamo a pija er gelato?”) al funerale di una coetanea morta suicida, è giusto un spartito su cui affastellare i rimbombanti assoli partoriti dalla mente di Zero. Che osserva, si interroga, cerca di acciuffare sintesi per dare un senso a ciò che circonda i suoi dubbi ombelicali, lì seduto sul “divano di spade” mentre cerca un film da guardare, vittima dell’implacabile sindrome da multiopzione.

Lo fa in dialetto romano e pure un po’ strascicato? Sì, “è regolare” (è ovvio… è sacrosanto). “Nun ve vojo attaccà er pippone”, direbbe Zero, ma il dialetto brucia i tempi, accorcia la distanze fra le pulsioni, riduce al minimo i passaggi logici tra le luminose folgorazioni della mente, che l’italiano immacolato e corretto tenderebbe a normalizzare. Senza prendersi troppo sul serio, ma le sfumature contano. E a Roma la differenza che c’è fra “Sti cazzi”, “Sto cazzo” e “Grazie ar cazzo” è la stessa che c’è fra il teorema di Pitagora, la fissione nucleare e le ricette di Suor Germana. Alcune espressioni spontanee che vanno a incastrarsi in un contesto, quelle freddure fulminee che sgusciano via dalle frasi, spalancano più voragini di senso di un intero simposio.  Almeno se si vuole mettere in scena il flusso di coscienza di un ragazzo, quasi uomo, calato nella labirintica periferia romana. Se poi, facendo un esempio a casaccio, pretendessimo che la traduzione di un brano hip-hop avesse lo stesso impatto dello slang (con tutti i suoi significanti e le sue inflessioni) con cui quello stesso brano viene strillato da un cantante rap di un ghetto di Los Angeles, dovremmo rifare la convergenza al nostro ruolo di semplici fruitori.

Fine del ‘pippone’.

Il protagonista di “Strappare lungo i bordi” cerca con rapidità una nuova lentezza che lo svincoli dall’assillo di un risultato da conquistare. E’ il vecchio discorso del trovare un proprio posto nel mondo, la storia consueta del limbo esistenziale che Zero Calcare divora con la sua narrazione animata incessante, che apre continui sottomondi interrogandosi sui massimi e i minimi sistemi, declinando l’autocommiserazione a orgoglioso urlo dell’Io, per esprimere dei sentimenti condivisi da una comunità in cui non tutti gli abitanti sono provvisti dello stesso talento per poterli esprimere. Affacciandosi anche, con genuina titubanza, alla ricerca di una guida pratica, di una bilancia affidabile per pesare le parole senza essere tacciati di avere dei pregiudizi.

Il viaggio di “Strappare lungo i bordi” è inoltre spassoso per la leggerezza con cui va al setaccio dei punti di riferimento della cultura pop, che è come un fiume in piena e ha migliaia di rivoli: dalle citazioni filosofiche che sono ormai patrimonio nozionistico da social (“E quando guardi a lungo in un abisso, anche l’abisso ti guarda dentro“, diceva Nietsche ), fino al famigerato video porno della carpa che è girato per anni sulle chat di whatsapp, soffermandosi sui luoghi comuni e i giudizi semplicistici che ormai diamo per scontati, come quello su Tito e la Jugoslavia.

Un’apatia attiva che cerca di dare ordine al caos di sollecitazioni e paranoie che ci aggrediscono alla rinfusa, alla ricerca di una risposta che non c’è. Per cui ci si tiene a galla in questo malessere generico e benigno per poi scontrarsi con la tragedia di una coetanea che invece a galla non è riuscita a rimanerci. Il Giovane Holden di borgata non è riuscito ad acchiappare nella segale una ragazza prima che finisse nel burrone. È lì che il racconto di Zero Calcare si concede all’amarezza ma senza cedere al sentimentalismo sfacciato e melenso. Anzi, ne scaturisce l’ennesimo pretesto per farsi ulteriori domande, a cui nemmeno un’utopistica età adulta potrebbe dare risposte. La forza di “Strappare lungo i bordi” sta nel partire da un tic personale per giungere all’universale, dalle briciole sul divano al senso della vita, seguendo le fissazioni di un ‘impicciato’ onnivoro, che ingurgita tutto ciò che lo circonda, lo frulla e lo filtra, non per dare risposte certe ma per organizzarsi intorno a domande più circoscritte con cui provare a saldare gli assunti traballanti.

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