LA CASA DELLE MILLE CHITARRE
BRUCE SPRINGSTEEN – LETTER TO YOU
VOTO 8
APPLE TV
Su Apple Tv, seguiamo il Boss in sala d’incisione con “Letter to You”, l’ultimo capitolo di una trilogia intima e autobiografica iniziata con “Springsteen on Broadway” e proseguita con “Western Stars”.
Ci sono luoghi, parole e tematiche ricorrenti nell’album “Letter to You”, che provengono dal cuore di tenebra di Bruce Springsteen e si sprigionano nell’incessante dialogo con il quale, da qualche anno a questa parte, il Boss ha scelto di mettersi a nudo rivolgendosi a tre interlocutori principali: se stesso, i suoi fan e la morte.
“Un bruciante bisogno di comunicare” dichiara lui stesso nelle prime inquadrature del documentario, che porta lo stesso nome del disco, mentre scorrono le immagini di un New Jersey innevato e i fedeli compagni della E Street Band affilano gli strumenti per partorire un piccolo miracolo rock nel giro di una manciata di giorni.
Un’urgenza di comunicare che, come sempre nella visione springsteeniana (e in molta letteratura americana) oscilla tra due opposti: idealismo e pragmatismo, sacro e profano, spirituale e laico.
Ogni ombra contiene uno sprazzo di luce e viceversa. La vibrazione la trovi e la senti in quel sentiero che unisce le dicotomie.
Ed è un’urgenza che lascia di stucco, a ben pensarci, considerando l’età del soggetto, il repertorio sterminato e il conto in banca.
Ma, come ha scritto con la solita intuizione Alessandro Portelli su Il Manifesto: “Il vero tabù della controcultura è l’età adulta, e fin da Thunder Road Bruce Springsteen è stato il primo a capire che il rock and roll non appartiene a un solo momento, a una fase adolescenziale della vita, ma è capace di accompagnare il tempo e intridersi di storia e memoria”.
Lo sanno bene i suoi fan: Bruce sente periodicamente il bisogno di rilanciare una liturgia salvifica che si spinga fin sull’orlo della retorica senza mai caderci dentro; così come sente la necessità di
costruire un rituale che si interrompa proprio nel preciso istante in cui rischierebbe di finire schiacciato da un velo sentimentalistico troppo cupo e oppressivo.
Negli album, nei live e nei documentari Bruce inquadra con il mirino questo momento critico ma irrinunciabile, lo mette a fuoco e poi lo disinnesca con un urlo liberatorio o con uno scanzonato
ritornello cristallino.
Non prima di essersi fatto un giro lì dove le radici del blues si intrecciano con gli eterni sortilegi del soul, e la tradizione folk presta i suoi accordi basici ai retaggi gospel. Una specie di Punto G della storia della musica.
Luoghi, parole e temi ricorrenti, dicevamo: la morte, il buio, la solitudine, la vecchiaia, i fantasmi, il tempo che scorre inesorabile. Oltre il confine.
C’è sempre un ‘edge of town’ concreto o figurato nei lavori di Springsteen.
Tuttavia, queste insistenze aspre e malinconiche sono costantemente illuminate e smussate dal loro contrario: la luce, il sogno, la speranza, il fuoco, il desiderio di fratellanza, il culto dell’amicizia e dell’incontro. Un posto dove darci appuntamento Bruce lo trova sempre: sia esso la città, la strada, un treno. E ovviamente le rive di un fiume. Simboli tumefatti ma ancora vegeti di un immaginario incastonato in un tramonto perenne, a cui Springsteen toglie la patina da cartolina infilando la creatività dentro lo schema, l’estro nel cliché.
Il messaggio del suo disco e del suo film è diretto, comprensibile, profondo. E puramente rock.
“You” è il pronome per antonomasia del rock. Il titolo è quindi già una dichiarazione di intenti.
Del resto se si scorre la lista delle canzoni (Ghosts, Power of Prayer, Last Man Standing, I’ll See You in My Dreams, Burning Train) o se ci si inoltra nelle pieghe dei testi (Death Is Not the End, I’m Alive, I’m Coming Home), la semplicità non lascia scampo. Non c’è niente di criptico.
Bruce è poetico, ma schietto e ruspante, persino ingenuo come un ragazzino per il modo in cui continua a fidarsi ciecamente del rock e dei suoi fan.
Perché fra noi e lui esiste un patto d’acciaio che si rinnova a ogni disco e soprattutto a ogni concerto. Il patto dice che in quella porzione di tempo non c’è un altro posto in cui lui e noi vorremmo stare. E’ quello, e solamente quello, il luogo in cui siamo finalmente completi e complementari. Il luogo dove si esorcizza la morte. O almeno ci si prova.
Il documentario entra nel laboratorio di Springsteen, fra chitarre, mixer e pentagrammi. Un ambiente accogliente dove il Boss fa il Boss: quindi raduna, coordina, smonta, monta e comanda.
Scherza con gli amici di una vita, omaggia il pubblico italiano con un paio di gustosi aneddoti.
Ricorda chi non c’è più e brinda ai futuri concerti, perché il senso di appartenenza va arricchito ogni volta ‘on the road’.
Bruce sviscera la genesi del disco, ripercorrendo i suoi esordi con la prima band, i Castiles: forsennati ed instancabili ragazzini che suonavano nei bar dello Jersey Shore degli anni 60.
Dedica i suoi ricordi ai compagni presenti e passati.
Dopo uno spettacolo teatrale in solitaria su un palco spoglio di Broadway, dunque, e dopo un disco solista e introspettivo, Springsteen scava nelle radici e ritrova la gioia e la bellezza di appartenere a una band. Alla E Street Band. Che, nel documentario, mostra tutta la sua efficienza da macchina indistruttibile.
C’è inoltre la dimensione live: 10 dei 12 pezzi del disco sono suonati in presa diretta, puntualmente introdotti da Bruce, abilissimo nello scolpire il filo conduttore e nel proporre come un veterano dello storytelling (chi, se non lui?) gli agganci narrativi fra la sua biografia e il senso della canzone.
La magia del disco e del documentario sta nell’essere al tempo stesso un commiato e un benvenuto. Una fine e un nuovo inizio. Dipende dall’ottica con la quale lo si ascolta e lo si guarda.
La verità sta nel mezzo. E nel mezzo del disco troviamo “House of a Thousand Guitars”, in cui si fa la conta delle cicatrici e delle ferite, ma poi ci si dà appuntamento, un sabato sera qualunque, nella casa delle mille chitarre.
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L’algoritmo umano consiglia:
SPRINGSTEEN ON BROADWAY – (Netflix)
Una piccola location con una capienza minore di 1000 posti, il Walter Kerr Theatre a Broadway, fa da sfondo a uno show che è al contempo un concerto e un monologo con cui Bruce Springsteen segna una sostanziosa deviazione dal suo percorso abituale, seguendo una scaletta fissa (una quindicina di pezzi, pochissime le variazioni) e un orario preciso. Ogni giorno dal 12 ottobre del 2017 fino al 15 dicembre del 2018. Sempre sold out. Una dimensione più intima per adattare in musica la sua autobiografia cartacea (“Born to Run”) di cui questo show è la costola. Bruce ripercorre la sua infanzia e l’adolescenza, si sofferma sul rapporto burrascoso con il padre, esalta il legame con la madre, dedica parole e note alla sua hometown. Da cui ha sempre cercato di fuggire per poi tornarvi. E propone in versione acustica le sue hit primarie, fra cui “Born in The Usa”, “Born to Run”, “The Promised Land” e “Thunder Road”.
WESTERN STARS (Apple TV, Rakuten TV, TIM Vision)
“Western Stars“, uscito nel giugno del 2019, è un album che scruta nei recessi di un mondo abitato da losers e viaggia fra le disillusioni del sogno americano infranto. Tredici canzoni che sono altrettanti cortometraggi. Dallo zoom sul pollice dell’autostoppista in “Hitch Hikin’”, che alza il sipario, fino alle pennellate metafisiche della lynchiana “Moonlight Motel”, che conclude un itinerario condotto attraverso spazi sconfinati, amori non corrisposti e personaggi giunti nei paraggi del capolinea. Bruce Springsteen le ripropone tutte, circondato dalla luce fioca del suo fienile del New Jersey e accompagnato da un’orchestra di 30 elementi. Esibizione ‘analogica’ e imperdibile che Bruce arricchisce in coda con la cover di “Rhinestone Cowboy”.
BLINDED BY THE LIGHT – TRAVOLTO DALLA MUSICA – (Sky Go, Infinity)
Commedia di formazione dalla regista di “Sognando Beckham” che prende il titolo dalla prima canzone del primo album di Bruce Springsteen, “Greetings from Asbury Park, N.J.” Siamo nell’Inghilterra thatcheriana degli anni ’80, precisamente nella cittadina industriale di Luton, e Javed è un ragazzo di origini pakistane soffocato da una famiglia conservatrice. La scoperta della musica del Boss sarà per lui la svolta verso l’emancipazione e la libertà. I testi di Bruce lo spingono a sfidare le regole, assecondare il proprio desiderio di fuga e inseguire la sua vocazione di scrittore. Tratto dal libro di memorie “Greetings from Bury Park” del giornalista britannico Safraz Manzoor.