INVENTING ANNA E’ LA SERIE NETFLIX DEL MOMENTO, VEDIAMO COME MAI TUTTI NE PARLANO, E PERCHE’ ANCHE VOI DOVRESTE VEDERLO
“Ma allora qual è la tua storia, Anna?”
“Sei tu la giornalista. Immaginavo che lo avresti scoperto da sola.”
TUTTI NE PARLANO
Tutto parte dalla domanda che mi hanno fatto, rivolgendosi a me presumibilmente come persona informata sui fatti: <Ma perché tutti parlano di questo Inventing Anna?> La risposta più giusta in casi come questi, in cui il passaparola amplifica a dismisura il successo di un titolo invece di un altro, è sempre il classico ‘tutti ne parlano perché ne parlano tutti’. Ma la tautologica intrinseca verità di questa spiegazione ha lo svantaggio di troncare la conversazione, e sicuramente una potenziale recensione. Quindi ho deciso che per rispondere alla domanda era proprio necessario guardare i nove episodi di questa miniserie creata dalla ‘maga’ Shonda Rhimes (rendendomi conto tra l’altro che il fatto che Inventing Anna sia nata dalla stessa autrice di Grey’s Anatomy, Le regole del delitto perfetto, Scandal, Bridgerton risponde già in modo più articolato al perché tutti ne parlino, dato il suo senso per le buone storie ma soprattutto il tocco soprannaturale nel promuovere le sue creature).
Dunque, nonostante il mio scarsissimo interesse per le storie vere di truffatori straordinari che anche se ti rimangono simpatici alla fine pagano il loro debito con la giustizia, ho iniziato a guardare la serie che racconta la vicenda reale della socialite Anna Sorokin, in arte Anna Delvey, che per qualche tempo ha vissuto una vita da VIP a New York facendosi passare per un’ereditiera tedesca e scroccando alberghi, resort, saune, ristoranti e addirittura aerei privati, pur non avendo in realtà nemmeno l’ombra del patrimonio in nome del quale l’intero jet set di Manhattan le faceva prestiti, per il perverso principio secondo cui i ricchi favoriscono sempre solo chi sembra più ricco di loro.
Per una persona che si è addormentata nei primi venti minuti di Prova a prendermi (e quello era SPIELBERG!), già dare fiducia a un solo episodio di un racconto con queste premesse è stato uno sforzo. Ma invece…
MA INVECE
Invece Inventing Anna non è solo la storia, appassionante per chi ama il genere, di una ragazza che ‘crea’ un personaggio, cercando di ottenere il successo attraverso quello invece che con il suo vero sé. Ad essere inventate, raccontate, interpretate, sono le storie delle persone che a diversissimo titolo sono state intorno ad Anna Delvey, venticinquenne inafferrabile stella del bel mondo newyorkese tra il 2015 e il 2017. E’ la storia complessa e completa dei tanti personaggi che insieme rappresentano plasticamente l’alta società attuale, ma anche la bassa, la media. Insomma, la gente com’è, e più di tutto come vorrebbe essere. E’ la fotografia di un mondo meno lontano di quanto può sembrare.
Ogni episodio è dedicato a un personaggio che ripercorre l’ascesa e caduta di Anna, ma protagonista insieme a lei, anzi più di lei, è la giornalista che si impegna forsennatamente a ricostruire la sua storia, Vivian Kent.
Vivian è il collante della serie, è quella che concretamente ‘inventa’ Anna, che decide che la sua vicenda è degna di un’inchiesta giornalistica sulla rivista Manahattan Magazine, e che deve essere proprio quell’inchiesta a salvare la sua carriera in crisi (la sua di Vivian, chiaramente). Nei primi episodi Vivian è il centro focale, è il suo personaggio che cattura la nostra attenzione, col pancione che incombe, la tenacia cocciuta e petulante di scrivere e capire, la voglia di ripulire la sua reputazione macchiata da un misterioso incidente del passato. Come si scopre nei titoli di coda, Vivian Kent è l’unico nome inventato tra tutti quelli dei veri personaggi di questo fatto di cronaca che ha avuto vasta eco in USA, ma la storia è la SUA storia: la serie è basata sull’articolo che la reale giornalista Jessica Pressler pubblicò sul vero New York Magazine, “How Anna Delvey Tricked New York’s Party People”, che colpì la fantasia di Shonda Rhimes tanto da immaginare la serie che stiamo vedendo.
Ma quindi quanto c’è di vero in Vivian? E’ reale la sua ossessione per Anna, il suo pianto sfrenato quando si rende conto che la gravidanza potrebbe farle perdere terreno sull’inchiesta, i suoi problemi con il capo redattore e la sua fama di cattiva giornalista? E quanto è vera la storia che racconta, crea, ricostruisce. Questo non importa, in realtà. O meglio, importa meno di quanto potrebbe sembrare trattandosi di una storia vera, come in ogni episodio una scritta si incarica di farci capire: “Questa storia è totalmente vera, tranne per le parti che sono state completamente inventate”.
UNA STORIA VERA, TRANNE PER LA PARTE INVENTATA
Inventing Anna, credo sia necessario capire, è riferito non solo ad Anna che creava il personaggio di sé stessa per avere successo senza avere né soldi né, forse, talento. Ma è riferito appunto alla giornalista che l’ha resa famosa dando corpo e anima alla sua storia, ed è anche riferito al racconto che stiamo guardando, che partendo dal personaggio reale lo reinventa, ed è dedicato a noi che guardiamo, destinati a inventare significati e simboli a seconda della nostra sensibilità personale.
Questo fa impazzire il recensore che voleva essere critico: una serie perdutamente mainstream, realizzata dalla regina del clichè e del politicamente corretto, si rivela una cassaforte con un doppiofondo di significati, anche filosofici, un raffinato gioco di specchi e di rimandi. Senza perdere in capacità di attrarre e divertire. Se fossi un recensore che dà i voti, sarebbe un voto molto alto, stavolta.
MEDITATE GENTE, MEDITATE
Dunque Vivian va a trovare Anna in prigione prima del processo, illudendosi (e illudendoci) di poterla conoscere e capire, e intanto indaga sul suo passato per ricostruire la storia della truffa: la reporter avvicina le molte persone raggirate dalla giovane socialite, e ognuna di esse inizialmente mente per non ammettere la propria dabbenaggine, il fatto di essere stata presa per i fondelli da una ventiquattrenne con un accento improbabile e nessuna referenza dimostrabile. Il ‘giudizio’ di Vivian, e nostro, fatica a condannare Anna, mentre si accanisce volentieri sui supponenti, arroganti, ingenui personaggi che l’hanno circondata: fidanzati, mentori, figure paterne, cosiddette amiche. I primi due episodi agganciano l’attenzione su Anna e sulla storia di Vivian che inizia a conoscere Anna: la loro avvincente nitidezza narrativa lancia la volata agli episodi centrali, che presentano i personaggi di contorno, senza i quali la storia però non esisterebbe nemmeno. La serie perde quota in questa parte centrale, ripetitiva e in un certo senso prevedibile, ma si rialza negli ultimi due episodi, soprattutto in quello finale. Nella nona puntata va in scena il processo e, sono ventenni che lo sappiamo, la messa in scena dei dibattimenti in aula gli sceneggiatori americani la sanno fare come nessun altro.
IL PROCESSO
L’avvocato difensore, Todd, è l’altro personaggio chiave della storia, e il suo rapporto con Anna finisce per essere una relazione padre/figlia, dato che il padre sempre evocato rimane come un’ombra sullo sfondo, un’ombra che quando prende forma rivela la centralità della sua assenza. Durante il processo i nodi vengono al pettine, l’acme emotivo è finalmente raggiunto, e si spezza con una deflagrazione quel tono glamour e civettuolo tipico dei prodotti Shondaland che aveva prevalso finora. L’avvocato, che capisce la sua cliente essendo in certo modo come lei un ‘imbucato’ nella società in cui vive e lavora, sceglie una linea di difesa che Anna stessa non approva: decide di puntare sulla sua ingenuità. Insomma Todd incolpa di raggiro non Anna, ma la società stessa, e i raggirati che hanno lasciato che una ragazzina ambiziosa li trascinasse nei suoi sogni impossibili. “Esiste un briciolo di Anna in ognuno di noi. Tutti mentiamo” dice Todd all’uditorio “La società dell’immagine ha cambiato tutto: oggi tutti siamo marchi da vendere sui social, ognuno di noi è impegnato a costruire una bugia”. Anche se il verdetto della giuria nel processo di Anna Sorokin è nota, durante l’ultimo controinterrogatorio del bravo avvocato che si è affezionato alla sua cliente lo spettatore spera che le cose alla fine si risolvano per il meglio per lei. Perché truffare banche e grandi alberghi in fondo non è considerato ‘male’ da nessuno tranne che dalle banche e dai proprietari dei grandi alberghi. Come qualcuno dice all’inizio del primo episodio “Andiamo! Tutti odiano le banche e tutti pensano che gli alberghi siano troppo cari.”
Anna Sorokin non è stata Robin Hood, ma la sua storia suscita simpatia perché a guardarla bene è la società attuale che suscita antipatia: tutto quello che ci circonda ci spinge a pensare che si può farcela anche solo volendo, solo grazie all’immagine che si ha di sé, e alla capacità di venderla agli altri. Ma la realtà è, come è sempre stata, ben altra.
Un sottotesto pensoso, per una serie che si presenta glitterata e firmata, pronta per qualche storia di Instagram.
Anna ha usato tutti, ma tutti hanno usato Anna: anche la giornalista, che si è rifatta una carriera grazie a lei, anche l’avvocato che ha avuto il suo primo caso di rilevanza mediatica grazie a lei. Anche Shonda Rhimes, anche questa serie, hanno approfittato di Anna, per parlare di altro, per riflettere sulla colpa individuale, sul rapporto tra immagine e realtà, e più di ogni altra cosa per parlare del lavoro del giornalista e dell’autore. Inventing Anna è una lunga, sfavillante, divertentissima storia sul mestiere di scrivere, sulla possibilità di creare personaggi e di definire in modo totalmente autonomo anche la propria stessa identità. La storia prende la mano al suo autore, sopravanza il personaggio stesso (anche essendo vero, soprattutto perché è vero) e spande in giro significati ulteriori e superiori. Seguendo le vicende della piccola truffatrice Anna, della giornalista che la inventa, dell’avvocato che prova a dipingerla come non potrebbe mai essere, delle amiche che la usano e poi la rinnegano, seguiamo la storia di una storia, arrivando a concludere che ognuno non è che la maschera che presenta al mondo, sperando che il mondo se la beva, dimenticando che intanto tutti sono intenti a lavorare alla propria, di maschera.
Lo aveva spiegato bene già un tal Pirandello Luigi, nel secolo scorso, ma trovarlo confezionato in una serie perfettamente attuale riporta il concetto in auge in questi superficialissimi nostri anni.