IL DOCUMENTARIO SULL’HARLEM CULTURAL FESTIVAL, LA KERMESSE MUSICALE CHE SI TENNE NEL CUORE DEL QUARTIERE AFROAMERICANO DI MANHATTAN NEL 1969, E’ UN PRODIGIOSO PEZZO DI STORIA RICAVATO DA MATERIALE RIMASTO INEDITO PER MOLTI ANNI. HA GIA’ VINTO DUE PREMI AL SUNDANCE E IL PREMIO OSCAR 2022. LO TROVATE SU DISNEY+ E DAL 1 MARZO ANCHE SU SKY PRIMAFILA.
Mentre a Woodstock, duecento chilometri più a nord, si celebravano, nel fango, i leggendari 3 giorni di pace, amore e musica, di cui si è scritto e parlato fino allo sfinimento, con tanto di documentario torrenziale dedicato, e mentre l’uomo sbarcava sulla luna – in quell’estate spartiacque del 1969 – la stessa della brutale strage di Charles Manson e dei suoi accoliti a Cielo Drive – succedeva anche altro.
Il sottotitolo di Summer of Soul è “Or When the Revolution Could Not Be Televised: “quando la rivoluzione non poteva essere trasmessa in tv”, in riferimento alla poesia/canzone di Gil Scott-Heron, divenuto poi uno slogan popolare fra le istanze dei movimenti dei diritti civili dell’epoca. Una frase che è già una sentenza, e colloca il documentario dove merita di stare, cioè fra i reperti inestimabili. Per quello che illustra e per la sua gestazione.
Dal 29 giugno fino al 24 agosto, per 6 domeniche di fila, tra i prati e i viali del Mount Morris Park (ribattezzato anni avanti Marcus Garvey Park), 300.000 afroamericani assistono alle esibizioni di Gladys Knight, Stevie Wonder, Nina Simone, Sly & the Family Stone, B.B. King e i cosiddetti ‘molti altri’, per un festival/viaggio attraverso tutte le possibili incarnazioni della musica black. Dal Gospel al Funky al Jazz, passando per il latino, il blues e l’R&B.
Il filmmaker Hal Tulchin riprende il tutto per un totale di 40 ore di riprese incise su videotape, alcune delle quali vengono utilizzate per un paio di speciali da un’ora andati in onda nello stesso anno (confutando solo in parte il sottotitolo…) sulla CBS e la ABC, senza nessuna esaltazione particolare per quella che poteva essere denominata come la ‘Black Woodstock’. Poi il materiale finisce in uno scantinato di Bronxville, ad accumulare polvere, rimpianti e sogni di gloria, fino al 2004, quando Joe Lauro, il CEO dell’Historic Films Archive scova il tesoro e contatta Tulchin per digitalizzarlo e dare il via al processo di produzione che fu interrotto più volte a causa di disaccordi e imprevisti, nonché dalla morte dello stesso Tulchin avvenuta nel 2017. Poi l’accelerazione, con il girato che entra in possesso del poliedrico Ahmir Thompson alias Questlove, nome d’arte di un artista tuttofare. Il batterista dei The Roots, vincitore di 5 grammy award, direttore musicale del Jimmy Fallon Show, produttore, filmmaker e scrittore, raccoglie l’enorme mole di materiale e lo fa risorgere intuendone la potenza e ne contestualizza il valore. Non solamente musicale, ma culturale e ad ampio spettro. Riesumato, remixato e rimesso a nuovo nell’epoca del Black Lives Matter, “Summer of Soul” vuole anche essere la prova della natura ricorrente del pregiudizio razziale, in una sorta di specchio deformante fra due luoghi immortalati con il grandangolo: l’America degli anni 60 e la sua nemesi trumpiana.
Questlove estrapola il meglio, montando gli highlights delle performance live con le testimonianze dei musicisti e inframezzando il concerto con un assortimento degli eventi che surriscaldarono il clima sociale negli anni 60. L’Harlem Cultural Festival fu organizzato dal cantante Tony Lawrence per commemorare il primo anniversario dell’assassinio di Martin Luther King, con il patrocinio dell’allora sindaco di New York John Lindsay e la sponsorizzazione della Maxwell House Coffee. Malgrado la ovvia presenza della polizia, Lawrence chiese alle Pantere Nere di collaborare al servizio di sicurezza e, nel nome del Black Power, il concerto spalmato su due mesi fu per loro un palcoscenico dentro al palcoscenico.
Il film un’immersione nella forza motrice creativa della musica black, ma è soprattutto un rito collettivo e identitario, un momento formativo per tutti coloro che vi parteciparono, che si cementa durante i climax predicatori di Jesse Jackson e Nina Simone. Un urlo liberatorio e anche taumaturgico che rivendica e guarisce le ferite provocate dai soprusi subiti e dai diritti calpestati, finendo per riplasmare la narrativa controversa tramandata sulla Harlem anni 60. Il quartiere che si estende da Central Park North fino alla 155esima strada cambia fisionomia e si trasforma in una popolare festa danzante che si raduna attorno ai totem della fratellanza, della spiritualità e del sollievo fornito dalla musica guaritrice di ferite in un deflagrante inno catartico pervaso di orgoglio razziale.
Fra i momenti da incorniciare c’è in apertura l’assolo di batteria di Stevie Wonder, che spavaldamente si svincola dalle titubanze di stampo commerciale e avanza sulla scena dell’impegno politico senza paura di compromettere le vendite dei suoi dischi. David Ruffin, ormai solista dopo gli anni con i Temptations, imbizzarrisce il pubblico con il classico “My Girl”. Poi, l’apparizione di Sly & the Family Stone (gli unici partecipanti dell’Harlem Culture Festival che si esibirono anche a Woodstock), simbolica per essere una band composta da neri e bianchi, che dilagano con il loro suono soul, funk e psichedelico. Sebbene il momento più appassionante lo ritagliano Mahalia Jackson e Mavis Staples, che in coppia intonano “Take My Hand, Precious Lord”, il brano preferito da Martin Luther King.
“Summer of Soul” è un reperto artistico e antropologico che cattura l’urgenza alla base di un evento rivoluzionario, finora mai emulato, e lo libera dall’oscurità in cui è rimasto sepolto per quasi mezzo secolo.