SU SKY LE DUE STAGIONI DI “EUPHORIA”, LA SERIE CON ZENDAYA PREMIATA AGLI EMMY CHE COMPIE UN VIAGGIO NEL MONDO ALLUCINATO DEGLI ADOLESCENTI AMERICANI: UN PUGNO IN FACCIA CHE PROBABILMENTE CI TOCCA PRENDERE ANCHE QUI IN ITALIA

Gli Emmy Awards – gli ‘oscar’ dei programmi televisivi, come vengono considerati – quest’anno sono passati quasi sotto silenzio, forse sopraffatti dalla contiguità con il più solido Festival di Venezia e la concomitante globale news della morte della Regina d’Inghilterra, che ha monopolizzato il pianeta per ben 12 giorni (non la morte, la sua celebrazione, s’intende). Tra le poche notizie che hanno avuto spazio sui media, il premio come miglior attrice ricevuto da Zendaya per il ruolo di protagonista nella seconda stagione di Euphoria, riconoscimento che la lancia nella storia: vincitrice più giovane e prima donna di colore a ricevere un premio per due anni di seguito nella storia degli Emmy. Ma soprattutto Zendaya è  uno dei personaggi del momento (ne abbiamo parlato qui), e anche se la serie ha ricevuto in realtà sei premi, nove se contiamo anche quelli della prima stagione, è su di lei che si ferma l’attenzione del pubblico internazionale: bellissima, festaiola, eccezionalmente elegante sui red carpet di tutto il globo, la ventiseienne attrice cantante modella americana lanciata da Disney meritatamente richiama spettatori per la sua visibilità, ma non è l’unico motivo per cui seguire Euphoria, visibile in Italia sullo streaming di SKY.

EUPHORIA
Zendaya nella serie è voce narrante e fulcro del racconto della vita di un gruppo di adolescenti americani, che si dipana tra dosi di droghe sempre più pesanti, sesso decisamente poco selettivo scopiazzato dai porno in rete, bugie troppo facili ai genitori e lunghe passeggiate sul baratro del vuoto esistenziale.
Lei, Rue, è figlia di una famiglia della media borghesia, come specifica lei stessa nel prologo non è vittima di abusi, non ha avuto traumi particolari, ha vissuto un’infanzia tranquilla e dimenticabile: per quello che ne sa non ci sono motivi ‘esterni’ per la sua propensione alle dipendenze. E’ qualcosa di congenito, una spinta più che autodistruttiva, insopprimibile, invincibile. La ragazza si droga tanto che finisce in overdose, entra in rehab, ne esce e il pomeriggio stesso corre dallo spacciatore (tredicenne) a comprare qualcosa di nuovo e di forte, che le regali appena possibile quella sensazione di benessere, di euforia, che le è necessaria per andare avanti e tirarsi dietro sé stessa in quel percorso senza senso che la gente normale chiama vita.
Mentre Rue osserva, dall’alto del proprio sfacelo personale, lo sfacelo collettivo dei coetanei che la circondano, fa una nuova conoscenza. Una ragazza un po’ misteriosa, ancora più fuori di testa della media: le due legano immediatamente, senza tante parole, a pelle. E un’amicizia scombinata, sbagliata e fin troppo ‘euforica’ si candida a diventare un’arma per salvarsi, uno spiraglio di buono in un mare di buchi, sniffate, trip sempre più lunghi e allucinati.

Una descrizione a volte puntuale e a volte lisergica, quella di Euphoria, di un mondo che ci piacerebbe pensare esasperato, estremizzato. Non ci va di ammettere che, forse, i ragazzi oggi (anche oggi, oggi con mille possibilità in più) conoscono queste derive di vizio, annichilimento, fragilità e sbandamento. A noi spettatori italiani poi piacerebbe pensare che queste immagini, questi linguaggi e queste violenze siano dei cliché narrativi tipici degli Stati Uniti, che siano posticci ed esagerati, finti insomma.
Ma sotto sotto temiamo che non sia così, e che la descrizione delle conseguenze di quel vuoto di valore e di senso che abbiamo contribuito a creare sia molto, molto verosimile.

PER CHI?
Seguire gli episodi di Euphoria è difficile, arduo: la rappresentazione è coinvolgente al massimo livello, è cruda, e i momenti di distensione dati dall’ironia della voce narrante sono come delle soste sul baratro, illusori attimi di riposo come se ne possono avere mentre si percorre un ponte tibetano: se guardi sotto ti prendono comunque le vertigini.
Zendaya è effettivamente eccezionale nel tratteggiare un personaggio che non si riesce a giudicare male nonostante la determinazione con cui si affretta a distruggersi la vita. La fragilità sotto la spregiudicatezza, il bisogno di amore e l’incapacità di prenderlo e darlo che trasmette rendono il suo un personaggio di quelli che difficilmente si dimenticano.
Ma chi è dunque lo spettatore a cui è rivolto Euphoria? Quale il target d’elezione? Assodato che la serie è un prodotto televisivo da 8 stelline e mezzo – per la qualità della scrittura, della regia, delle interpretazioni di questi giovani attori americani che sono sempre più sorprendenti nella loro ‘densità’ di immedesimazione – chi è che non dovrebbe proprio perdersela?

Gli adulti, soprattutto se genitori di adolescenti, la guarderanno seguendola con crescente sgomento, con agitazione sotterranea per il timore che quel mondo che li spaventa sia più vicino di quanto non sembri: un genitore medio, soprattutto italiano, faticherà ad accettare la crudezza e la veridicità della serie. Un adulto senza figli seguirà la storia di Rue, Jules e gli altri teppistelli e figli di papà con troppo tempo libero e troppi modelli negativi in modo freddo, senza il coinvolgimento che forse è necessario. Quindi sono i ragazzi stessi i destinatari di “Euphoria”?
Così pare, dal successo straordinario della serie tra i teen e poco più grandi. Ai giovani PIACE tanto, ne parlano, la guardano, e, si immagina, in qualcosa si riconoscono. Si sentono forse rappresentati dalle fragilità dei personaggi, dalla loro baldanza che cela sempre paura, dalla smania di essere diversi dai genitori che cela la speranza che la vita non sia quella poca roba che sembra. Rue, Zendaya, con le sue battute al vetriolo, le gonne troppo striminzite e la voglia di non esserci per non soffrire, è un simbolo perfetto di un momento della vita che deve solo passare, ci si augura senza troppi danni.
I giovani dunque il target della serie, che nonostante la rappresentazione plastica dello sfacelo, non si sottrae a un intento fondamentalmente educativo: nel corso degli episodi tutta la coolness dei personaggi drogati sbandati e senza valori si sfilaccia fino a mostrare che no, non è quello il modo con cui si arriva integri alla maturità. E’ la GUARIGIONE di Rue il percorso sotterraneo della storia, la speranza del racconto, la famosa luce in fondo al tunnel. Allora l’Algoritmo Umano consiglia di seguire Euphoria con coraggio fino alla fine, se si è adulti, e con cautela e spirito critico se si è giovani.

SE INVECE

Se invece il coraggio non lo avete, e la messa in scena di un mondo costantemente borderline non fa per voi, ma vi interessa addentrarvi comunque nel mondo degli adolescenti problematici, l’Algoritmo Umano vi suggerisce un’alternativa, una fiction italiana trasmessa da Rai Uno lo scorso anno e visibile su RaiPlay: “Un professore”.

Alessandro Gassman interpreta un professore di filosofia che, dopo anni di volontario ma non meglio motivato ‘esilio professionale’ a Napoli, torna ad insegnare a Roma nel liceo che frequenta suo figlio Simone, col quale ha un pessimo rapporto che deve recuperare. Ispirato a un format spagnolo, “Un professore” ha un approccio molto europeo e saldamente pedagogico alla descrizione del mondo giovanile, sbilanciato a favore della saggezza e della capacità di controllo e gestione dell’adulto maturo. Il professore, una sorta di attualizzazione del ‘capitano-mio-capitano’ dell’Attimo Fuggente (… negli intenti…), è il deus ex machina che risolve ogni situazione, che interviene a sedare-interpretare-salvare. Tra bulli che finiscono in giri criminali, ragazzi dalla sessualità indecisa, figli vittime della violenza parentale, ragazzi preda si sindromi psicologiche potenzialmente devastanti, anche qui come in Euphoria tutti i temi dei possibili problemi giovanili sono toccati: ma qui c’è qualcuno che risolve, c’è una mano buona che consola, che sistema, che aggiusta. In ogni episodio il Professore spiega un filosofo, e la tirata ‘a tema’ che fa ai ragazzi in classe è – secondo noi – la parte più coraggiosa e interessante dell’insieme. Perché “Un Professore” è ingenuo e consolatorio, esattamente il contrario di quello che è il suo omologo americano, però a suo modo è parallelamente necessario: è solo indirizzato a un pubblico diverso. Un pubblico non abituato ai cazzotti in faccia ma agli scappellotti, non alle grida ma alle battute che sdrammatizzano, non ai simbolismi iconografici ma alle tirate retoriche a sfondo morale.

Il mondo (delle serie) è bello perché è vario, ognuno scelga quello che più gli si confà. Consapevole però che nel prodotto italiano non c’è una Zendaya da premiare per la credibilità del suo personaggio…

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