COME VEDE “TUTTO CHIEDE SALVEZZA”, LA BELLISSIMA SERIE NETFLIX SU UN RAGAZZO CHE SUBISCE UN TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO IN UNA STRUTTURA PSICHIATRICA, UN ESPERTO ADDENTRO A QUEL MONDO? L’INTERVISTA A GIUSEPPE FEMIA, PSICOLOGO E PSICOTERAPEUTA, ILLUMINA DI UNA LUCE DIVERSA LA FICTION DI FRANCESCO BRUNI ISPIRATA AL ROMANZO AUTOBIOGRAFICO DI DANIELE MENCARELLI
Il dottor Giuseppe Femia, psicologo e psicoterapeuta, ha letto la nostra entusiastica recensione di “Tutto chiede salvezza” (qui), e ha cercato di frenare l’entusiasmo un po’ acritico del recensore.
Non le è piaciuto “Tutto chiede salvezza” quindi, valutandolo da specialista?
La serie è potente, ha il merito indiscusso di avvicinare al disagio psicologico, e tentare di rompere lo stigma che esiste rispetto alla malattia mentale, al malato psichiatrico. E’ potente e piacevole, riesce coi suoi personaggi a normalizzare una situazione esistenziale tremenda, che fa paura. Ma, e questo ma è discriminante, normalizzando troppo rischia di trascurare il vissuto traumatico che spesso si osserva nella pratica clinica, in associazione proprio al TSO (trattamento sanitario obbligatorio) ancora oggi. La serie descrive bene la storia clinica dei personaggi, la drammaticità delle storie, l’importanza dell’amore, dell’amicizia e dell’aggregazione che fungono da protezione. Dettaglia bene i motivi del disagio sia del protagonista sia dei compagni di disavventura e della ragazza borderline vittima di una madre narcisista che le impone valori per lei superficiali. La narrazione coglie aspetti cruciali del funzionamento dei diversi profili, della vulnerabilità storica e dei motivi dello scompenso, ma commette forse l’errore di descrivere con minore attenzione la realtà e l’istituzione psichiatrica e, soprattutto il ruolo della medesima nell’andamento del disagio psicologico e di quanto spesso generi maggiore disagio e un forte senso di incomprensione irreversibile nel “malato”. Abbatte lo stigma, ma omettendo rischia di confermarlo.
Perché dice ‘ancora oggi’?
Perché il libro è del 1997, e aver attualizzato la storia ai giorni nostri non deve far pensare che la situazione ora, in un ospedale psichiatrico in cui si ‘contiene temporaneamente’ una situazione di grave disagio psicologico, si viva un situazione che non sia emergenziale, caotica e trascurante. Forse nella serie di Francesco Bruni viene tradito l’intento di denuncia che c’era nel libro (autobiografico di Daniele Mencarelli, che è il protagonista N.d.R), e che nobiliterebbe l’intento ‘pedagogico’ che la serie invece ha. La storia entra ma non entra, nel tema portante della storia: il TSO è un’esperienza traumatica che viene inflitta a una persona che sta già vivendo un’esperienza traumatica e cui spesso non segue un reale programma di cura e riabilitazione. La trascuratezza dei medici e del personale, la brevità programmatica del trattamento, l’inadeguatezza delle strutture sono componenti presenti nel libro, presenti purtroppo ancora oggi nella realtà, ma non veramente rappresentate nella serie. Si osservano degli accenni, ad esempio, quando la dottoressa a cui Daniele ha iniziato a dare fiducia sbaglia il suo nome, dimostrando di non avere una reale attenzione a lui come paziente e come persona, oppure quando “Madonnina” viene trattato con fare violento dall’infermiere sino a stimolare rabbia nel suo compagno di stanza. In questi momenti si respira per un attimo lo stress tipico di questi reparti, che spesso genera il comportamento aggressivo e/o distaccato di fornire cure con trascuratezza e della conseguente ripercussione – spesso devastante – che da questo atteggiamento scaturisce. Tali aspetti forse vengono poco approfonditi.
Quindi lei trova che la malattia sia rappresentata in modo sbagliato?
No, la malattia è resa bene, in particolare quella del protagonista: la serie ispira infatti tenerezza ed empatia. È la controparte, la parte sanitaria, l’istituzione psichiatrica totalmente inadatta che non è rappresentata bene nella sua drammatica realtà. In generale l’insieme si mostra edulcorato; a tratti rischia di offendere chi abbia vissuto un’esperienza come il TSO, o soffra di uno dei disturbi per cui si può arrivare ad essere ricoverati in una struttura di contenimento simile. Certo esistono i reparti che funzionano, i professionisti capaci ed empatici, ed esiste anche un cambiamento rispetto a prima, ma purtroppo sono l’eccezione. Il TSO spesso implica un calvario e una solitudine che non perdonano. Non segue una cura reale e una presa in carico della persona.
È rimasto deluso dalla serie rispetto al libro?
No, non deluso. Sono preoccupato che passi il messaggio sbagliato, date le troppe omissioni che presenta la fiction. Perché se da un lato è encomiabile il tentativo, riuscito, di parlare a tutti di un tema scomodo e difficile e che tende a essere ignorato, è maldestra la resa della parte politica e di denuncia dell’inadeguatezza del sistema, e purtroppo anche di quella emotiva, non abbastanza drammatica per essere credibile.
Lo spettatore si sente vicino emotivamente ai protagonisti malati, ed è una cosa positiva, ma l’empatia che sente non corrisponde ad una fotografia realistica che nel libro emerge pienamente. Si rischia di creare una falsa prospettiva e aspettativa: c’è una tenerezza verso la malattia mentale, ma non verso una realtà drammatica e crudele che ancora ci riguarda. La parte clinica è ben costruita, ma c’è un quasi diniego della realtà sia della malattia, sia della durezza quasi insopportabile delle cure per come sono proposte ancora oggi. Il tema, per chi ha visto la serie, oggi è più vicino di ieri, ma il rischio è che la stra-empatia che sollecita non sia autentica. Sia piuttosto uno sbocco meramente sentimentale, e non una comprensione nata dall’attraversamento della drammaticità dell’esperienza, non avendo avuto il coraggio di zoomare sui deficit che l’istituzione TSO presenta ancora oggi, a partire dal grandissimo problema di lasciare solo il paziente dopo il ricovero, non proponendo una continuità che darebbe stabilità a una situazione che per sua natura è fortemente instabile.
Qual è il suo giudizio finale della serie?
È un tentativo meritorio ma non del tutto riuscito di parlare di un tema importante, di togliere lo stigma a persone con problemi psichiatrici, e a quanti per diversi motivi sono costretti a subire un TSO, peculiarità tutta italiana. La serie è troppo edulcorata proprio nella rappresentazione di una realtà tragica (il TSO) che punisce e inganna, non cura ma trascura. Un diniego quasi, paradossale, che, nonostante lo scopo motore della storia, sembra tralasciare alcuni aspetti del TSO e delle istituzioni psichiatriche che sono invece benissimo descritti nel libro. Arriva a tutti, insomma, e accorcia le distanze tra chi è malato e chi del malato diffida, ma ha trascurato colpevolmente alcuni temi sociali di cruciale importanza e connessi ad un sistema psichiatrico segnato ancora oggi da problematiche importanti che rischiano di generare maggiore disagio, di contenere ma non curare il disagio psichico- non approfondendo l’analisi e fermandosi a una, innegabilmente riuscita, rappresentazione.