Su Netflix la serie spin-off della saga di Bridgerton firmata Shonda Rhimes: la giovinezza della Regina Carlotta cambia le carte in tavola e nella piacevolezza si inserisce una nota più profonda. Il racconto ci guadagna
Il target della saga di Bridgerton (il mondo ‘ucronico’ di Shonda Rhimes che rimanda all’Inghilterra del 1700 in cui eventi e personaggi reali si mischiano a fatti inventati e altamente implausibili) è un pubblico femminile, sensibile a temi sentimentali, moda eccentrica, sesso piccantello e lacrime emotive al momento giusto. Questo spin-off o meglio prequel della saga della famiglia Bridgerton, dedicato al personaggio già presente ma non protagonista della Regina Carlotta, mantiene il target sentimental-femminile ma amplia i suoi argomenti fino a includere grandi domande esistenziali e temi sociali e filosofici, potenzialmente coinvolgendo dunque un pubblico che si percepisce più pensoso (non diremo pretenzioso perché facciamo parte di quella schiera malefica e snob).
“La Regina Carlotta – Una storia di Bridgerton” è il racconto di come la giovanissima Charlotte di Meclemburgo-Strelitz, principessa di un remoto Granducato del nord della Germania, venne scelta diciassettenne come consorte per il giovane Re della potentissima Inghilterra del 1761. Giocando tra flashback e flashforward, tra una spaesata nobildonna appena arrivata a corte e la veterana regina consorte che è stata la più longeva di tutte (a parte il leggendario Principe Filippo marito di Elisabetta II, più antico di Gandalf), la serie ritrae l’inizio di una vita e una storia d’amore, e la sua quasi conclusione. Complice la sensibilità interpretativa delle due attrici – la veterana Golda Rosheuvel dalle parrucche gargantuesche e dall’ironia inafferrabile e la giovane, vivacissima e sin troppo graziosa India Ria Amarteifio rispettivamente anziana e giovane Regina – il racconto stavolta si stacca dal minuetto divertente e arguto che si prende poco sul serio che è Bridgerton, per spiccare un salto in acque più profonde che, forse, ambiscono a lasciare un segno.
IL TEMA RAZZIALE
Una recitazione più convinta e meno ammiccante, anche se nello stesso scenario di un Settecento super-glamorous e glitterato, collabora alla nota di cambiamento rispetto alle serie precedenti, che però è soprattutto inerente agli argomenti. Il dato, falso, della presenza a corte di persone di colore e dell’essere nera della stessa Regina, nelle stagioni 1 e 2 era presentato come acquisito e mai ‘descritto’ metanarravivamente. Qui invece il tema razziale è centralissimo e anzi il racconto stesso ‘giustifica’ la sua immaginifica presenza: la principessa è nera, quindi la madre del Re e il Primo Ministro decidono di tentare il cosiddetto ‘Grande Esperimento’, creare una nuova nobiltà di colore a corte, in modo che la Regina si possa – per così dire – mimetizzare tra i suoi ‘simili’. Il trucco è cinico e opportunistico, ma alcuni personaggi (su tutti l’astutissima e irresistibile Lady Danbury) sapranno approfittare della situazione per integrarsi davvero nella bianca e spocchiosissima corte di Re Giorgio.
Viene così inserito in modo abile e brillante il tema dell’uguaglianza e delle discriminazioni: la corte interraziale, palese forzatura della storia, è un modo originale e ‘iconico’ per affrontare l’argomento più universale delle ingiustizie sociali. Un universo alternativo, quello di Bridgerton, ma che vuol parlare di problemi e temi reali senza porsi i limiti della verosimiglianza storica, come la voce di Lady Wisthledown (personaggio geniale e chiave delle prime stagioni qui severamente ridimensionato) si preoccupa di puntualizzare proprio al principio: “ricordiamo che non state seguendo una lezione di storia, ma una fiction sulla Regina Carlotta di Bridgerton”. Lo spunto storico è dato dalle voci di un’origine ‘negroide’ della vera Queen Charlotte (che, nella sua genealogia, aveva effettivamente un’ava risalente a 300 anni prima che era una cortigiana portoghese di origine africana) che nella realtà furono insabbiate e nella finzione vengono esaltate, immaginandone le conseguenze.
Interessante, e intelligente: ma secondo noi non è questo il cuore pulsante e il bello di questa serie, bella e dal cuore pulsante.
IL CUORE PULSANTE
La domanda fondamentale è: come mai con tante teste coronate o nobildonne locali a disposizione, per sposare il sovrano della principale potenza occidentale del Settecento viene scelta un’oscura e per di più scura principessa tedesca? Perché Giorgio III di Hannover soffriva di una incomprensibile malattia mentale, ecco perché, e i maggiorenti del governo e la madre del Re si sentivano più sicuri ad affidare questo segreto a qualcuno che non avesse il potere per ricattare la corte e il Paese.
Di nuovo, partendo dal dato reale della malattia del Re (è stato storicamente ipotizzato che la severissima instabilità mentale di George fosse dovuta alle conseguenze della porfiria) la serie prende il volo armata di crinoline e passamanerie, e penetra a fondo nella storia complicata e forse bellissima di una coppia che alla fine ebbe 13 figli e che nel bene e nel male rimase sposata per 58 anni.
La diciassettenne Carlotta arriva a corte preoccupata che Giorgio, che non conosce e di cui sa pochissimo, possa essere un mostro. Recalcitrante e ribelle, quando vede che il sovrano è aitante e anche gentile, smette di recalcitrare e ribellarsi, e lo sposa a favore di sguardi interraziali compiaciuti. Ma la notte stessa si rende conto che potrebbe esserci qualcosa che non va in quel seducente nuovo consorte, che la molla da sola in un palazzo reale per recarsi a dormire e presumibilmente vivere in un altro. Senza consumare, per inciso.
La storia è la storia di come Carlotta cerchi di rendere effettivo il suo matrimonio, di come il Re tenti di fronteggiare la malattia segreta proprio per amore della sua giovane sposa, di come la corte remi contro cercando di remare a favore di un rapido ingravidamento reale. La trama scorre veloce, con i soliti perfetti incastri e rivolgimenti e sorprendenti rivelazioni che apparentemente ostacolano l’amore ma che ne rendono poi più intensa e soddisfacente la realizzazione. Tutto come sempre, come da copione dell’amore tormentato che pare impossibile, ma non lo è, perché niente è impossibile all’amore.
Però qui c’è di più.
La malattia del Re rende il suo personaggio delicato profondamente degno di empatia, soprattutto in ragione del crudelissimo, verosimile purtroppo, metodo con cui i medici dell’epoca tentavano di tenerla sotto controllo. Quando Carlotta finalmente scopre il motivo per cui il marito le stava, e le era tenuto, lontano, reagisce meravigliosamente, ed è qui che la serie fa il suo salto di qualità. La storia dell’amore tra questi due giovani, predestinati dalla natura dal ceto dalla storia a stare insieme, è innanzi tutto una storia di accettazione. Modernissima ed eterna, in realtà: la diciassettenne Regina d’Inghilterra rivendica il suo suolo di cura nei confronti di quel marito fragile e sconnesso, ed effettivamente la sua vicinanza e, banalmente ma non retoricamente, il suo amore riescono a contenere, gestire se non guarire il marito sofferente e a tratti invalido.
Il colpo di quasi genio di Shonda Rhimes sta qui, nel mostrare come una scelta apparentemente convenzionale – quella di occuparsi del proprio coniuge, imposto tra l’altro dalla famiglia – possa essere stata in un altro tempo e in un altro luogo una scelta di autodeterminazione, una scelta coraggiosamente femminista e alternativa. La giovane Carlotta decide di fare quello che sente, alla faccia delle regole e delle convenzioni di corte, accettando la ‘spaventosa’ malattia del marito in nome non del dovere coniugale, ma dell’amore che provava per lui.
Una storia d’amore plausibile e fantastica, come quella parallela del valletto della Regina, che non sveliamo ma che è una chicca narrativa, coinvolgente e poetica.
Forte, coraggiosa e impavida, è Carlotta la protagonista della serie, non la malattia del Re: per lei lui è Giorgio, ‘solo Giorgio’ come vuole essere chiamato, e combatte per lui contro la rigidità della più antica corte europea per il suo diritto all’amore.
La luce di questa storia illumina di riflesso la figura dell’anziana eccentrica Regina, alle prese con una nidiata di figli che daranno pochissimi frutti (una sola nipote in vita per il trono, la futura, minuscola Regina Vittoria) e soprattutto con l’assenza del suo Re, in vecchiaia ormai del tutto alienato. Le storie parallele di Lady Danbury e Lady Bridgerton trovano senso nella vicinanza a questo personaggio, e sono benissimo inserite nella trama delle sei veloci, colorate, musicali puntate della serie. Ma il cuore pulsante della storia è a tutti gli effetti l’amore di Carlotta e Giorgio, l’accettazione splendida e naturale di una condizione di disagio che viene raccontata con una delicatezza e un tatto davvero ragguardevoli, la bellezza plastica di un amore giovanile che, letteralmente, non si fa fermare da nessun ostacolo.
A chiudere questo sorprendente ‘esperimento rhimesiano’, una scena che si inserisce a buon diritto nella lista non lunghissima dei finali di bellezza struggente: si piange a catinelle, fan di Shonda, ragazze ingenue, donne mature, ma anche redattrici un filo snob. Vedere e lacrimare, per credere.