Ovvero del perché guardare la terza stagione di Tin Star, anche se non si sono viste le prime due

La prima stagione della serie anglo-canadese, del 2017, non è più disponibile in tv da nessuna parte, ma se qualcuno volesse vedere Tim Roth in uno dei suoi iconici personaggi ambigui, inquietanti, buoni/e/cattivi allo stesso tempo, può iniziare dal terzo capitolo, in programmazione dal 30 dicembre su Sky Atlantic e su Now Tv: quello che vi serve sapere sulle prime due stagioni, ve lo diciamo noi qui di seguito

PRIMA STAGIONE: IL CANADA

Tin Star è la stella di latta, il distintivo degli sceriffi che in alcuni paesi, come il Canada in cui è ambientata la serie, hanno mansioni inerenti alla sicurezza in alcuni ambiti. Una stella, ma di latta appunto, con  valore e poteri limitati.
Nella prima stagione il protagonista, un malinconico agente inglese interpretato da Tim Roth, prende l’incarico di sceriffo in un paesino delle Montagne Rocciose Canadesi, la sonnacchiosa e apparentemente tranquilla Little Big Bear.

Nel primo episodio succede già tutto: l’umbratile Jim Worth si è andato a nascondere tra le innevate vette del Canada per fuggire a un oscuro passato (oscuro perché è successo qualcosa di veramente brutto, ma anche perché la natura di quel qualcosa è lasciata nell’ombra dagli sceneggiatori), ma pare proprio che non sia riuscito a seminarlo. Qualcuno lo ha trovato e vuole ucciderlo, solo che per un drammatico errore colpisce invece il suo figlio bambino, che muore in auto davanti a lui, a sua moglie Angela e alla figlia maggiore Anna. E lui diventa una furia.
Questo è il vero nucleo della storia, il cuore della vicenda. Chi vuole morto il buon vecchio Jim? E perché? E cosa farà il poliziotto e il padre, per trovare il colpevole della morte del figlio e, prevedibilmente, farne carne da macello?
E questa è l’unica cosa che chi voglia seguire la terza stagione ha bisogno di sapere.
L’indagine parallela, infatti, condotta durante la prima stagione, è solo accessoria e non incide sui fatti della trama principale, che sono il desiderio di vendetta di Jim e la ricostruzione del perché qualcuno lo voglia morto. Quindi tutta la vicenda che riguarda la corrotta North Stream Oil, la compagnia petrolifera che vuole costruire una raffineria vicino a Little Big Bear a scapito della salute pubblica, e la relativa indagine condotta dalla vicepresidente delle pubbliche relazioni Elizabeth (interpretata da Christina Hendricks, la Joan di Mad Men), non è fondamentale.
Fondamentale è la rabbia folle del protagonista, una rabbia per la morte del figlio che lo riporta indietro nel tempo alla ricerca del colpevole e della vendetta, ma che soprattutto risveglia una cattiva coscienza, e delle pessime abitudini, che a loro volta riportano in vita il suo alter ego violento e senza scrupoli. Jack Devlin, questo il suo nome, è il doppio oscuro e tormentato di Jim Worth, che già tanto solare e conviviale proprio non è. Questa è la vera caratteristica di una serie che il suo creatore, Rowan Joffé, ha definito ‘un prodotto cinematografico serializzato’. Cioè l’escalation di violenza che trasforma il saggio poliziotto Worth (il nome significa ‘che merita, di valore’) nel pazzoide Devlin (e qui il nome è assonante con l’entità diabolica che incarna, Devil) che non arretra di fronte a niente e a nessuno per vendicare il suo lutto, perché di quel lutto si sente il vero colpevole.
Tra scontri a fuoco, morti che si moltiplicano, fughe sulle montagne e un numero onestamente esagerato di chalet che saltano in aria, vengono alla luce le magagne della vita precedente di Jim/Jack, agente sotto copertura che aveva fraternizzato troppo con la famiglia di un criminale, per poi subdolamente tradirla due volte. A questo punto la moglie e la figlia di Jim iniziano a prendere le distanze sia dall’uomo che ha ‘lasciato’ che il figlio morisse al posto suo, sia al tizio violento e fuori controllo in cui si trasforma quando, ricadendo nel suo vecchio vizio dell’alcolismo, si ubriaca.
La prima stagione dunque finisce con Jim/Jack che spara al ragazzo della figlia, che era anche collegato alla sua precedente vita da agente sotto copertura in Inghilterra e che per questo stava cercando di ucciderlo, e con Anna, la figlia, che preda della rabbia spara al padre.

 

SECONDA STAGIONE: LA SVOLTA

La seconda stagione si apre con la stessa cupissima atmosfera di vendetta rancore e dolore che chiudeva la prima, con la giovane Anna scappata dalla famiglia che ha tentato di uccidersi, Angela Worth che lascia il marito sanguinante per inseguire la figlia, e le forze oscure che danno la caccia a Jim sempre più oscure ma sempre più forti.
L’elemento nuovo della trama è la comunità religiosa, i pii Ammoniti, che salva Anna, ma che nella persona del capo della famiglia Nickel che la ospita, nasconde altri inevitabili oscuri segreti.  Stavolta, a differenza della prima stagione, la trama secondaria è davvero collegata a quella principale, anche se in modo abbastanza involuto: il severo Jonah Nickel cela nella stalla una partita di droga, ma per colpa di Jim la perde, e finisce nel mirino di un cartello messicano di trafficanti. Se vi sembra inverosimile che un pio religioso sia coinvolto con un traffico di droga messicano aspettate di sentire a cosa veramente è interessato il cartello che ora gli dà la caccia: ma certo! Il sicario del cartello è un criminale collegato con il famoso passato oscuro di Jim, ed è proprio lui il vero bersaglio dei suoi mandanti.  Quindi è esattamente qui, nel settimo episodio della seconda stagione, che la serie ha il coraggio di sganciarsi da tutte le trame oblique, fa il giro, si avvita e prende slancio per il balzo finale, quello che renderà giustizia di tutti i plot e le sottotrame thriller, spionistiche e poliziesche costruite finora, rivelando quello che sarà il nucleo centrale della stagione finale: il sicario morente chiede a Jim “Cos’è Liverpool?”. Esatto. Liverpool?
Ora Jim deve spiegare ad Angela e ad Anna ( e a noi) cosa è successo, a Liverpool, 10 anni prima, e perché la longa manus del crimine britannico si è spinta fino in Canada, attraverso il Messico, e ha usato un semi-innocente pastore Ammonita per arrivare a colpire lui, e tutta la sua famiglia.
Così, la seconda stagione si chiude con questa famiglia che si ricompatta, nonostante si sia scoperto che Anna non è figlia naturale di Jim ma che anzi il suo vero padre sia coinvolto nella torbida storia di vendette incrociate, e che decide di chiudere i conti con i fantasmi del passato.

 

TERZA STAGIONE: LIVERPOOL

Ed è proprio qui che arrivate voi, anzi noi e, dato che tanto per ora la sera non si può uscire, insieme ci possiamo accingere alla visione di questo terzo risolutivo capitolo, senza necessità di capire davvero cosa è successo nei primi due.
Jim, ormai stabilmente Jack, è a Liverpool, e lui, sua moglie e sua figlia hanno una lista di persone da trovare ed affrontare, per mettere una volta per tutte la parola fine ad una storia di violenza, menzogne, tradimenti. Cambio di scenario dunque, per un capitolo del tutto nuovo e fruibile come a sé stante. Colpi di scena dentro altri colpi di scena, confini morali continuamente superati, tradimenti costantemente perpetrati, limiti tra legge e vendetta personale ormai totalmente scardinati: ecco l’azione di Tin Star nella sua essenza più caratteristica, ed ecco il motivo per cui guardare un crime che si è trasformato in una spy story e infine in una storia di vendetta e riscatto con tanto di lista di cattivi da colpire come in The Blacklist.

E poi lui, Tim Roth, uno dei pochi attori in grado solo con la propria faccia di rendere l’ambiguità di un personaggio. Un attore il cui volto e la cui espressività sono un inno all’impermanenza, alla non decifrabilità, alla commistione tra bene e male, tra eroe e villain, tra (qui nello specifico) legge e crimine. E’ come se la recitazione di Roth esplicitasse la frase che apre la serie (citazione dello psicologo clinico Rapier) “A volte c’è una linea sottile che distingue un poliziotto da un criminale. Ciò che guida la loro personalità a volte può essere la stessa cosa.”
Se questo attore inglese così particolare piace, va assolutamente visto in questo ruolo che oscilla tra l’esasperato e l’incredibile, da intendersi come pregi di una interpretazione anticonvenzionale e non come difetti di plausibilità del personaggio. Interpretazione coraggiosa, soprattutto in  una serie tv, dove la recitazione non sempre ha la possibilità di esplorare le molte sfumature di una personalità.

E se il Tim Roth sgradevole e inaffidabile vi ha colpito, allora dovreste vedere anche il suo altro ruolo in una serie tv, quello dell’esperto ‘rilevatore di menzogna’ Carl Lightman, urticante e geniale protagonista di Lie to Me che aiuta l’FBI con una spocchia talmente grande da far tifare, a volte, per i criminali: purtroppo attualmente il programma non è reperibile da nessuna parte, ci penserà il vostro Algoritmo Umano a segnalane il ritorno appena verrà di nuovo in tv o su qualche piattaforma di streaming.

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Se  il Tim Roth instabile e spiazzante vi piace in versione cinematografica,  L’Algoritmo Umano vi ricorda quattro film di grandi registi, nei quali l’attore interpreta personaggi ambigui, sfumati, che si rivelano sempre diversi da come appaiono inizialmente, proprio come Jim Worth / Jack Davlin di TIN STAR.

 

Le Iene (Netflix, Tim Vision)

1992, primo lungometraggio di Quentin Tarantino, ricordato come uno dei migliori esordi cinematografici di sempre. Nella vicenda di una rapina andata terribilmente male e della ricerca di un traditore in un gruppo di criminali, Tim Roth ha un ruolo chiave: passando praticamente metà del film immerso in un lago di sangue, ferito gravemente e soffocato dalla paura di morire, riesce comunque ad essere un personaggio la cui natura risulta ambigua, spiazzante, diversa da quello che ci si aspetta dalle premesse. Il suo Mr. Orange ha lanciato la sua carriera cinematografica in quel di Hollywood, ed è solo uno dei tanti ruoli di sgradevole antieroe destinato a prendere su di sé le sorti di una svolta della trama.

Pulp Fiction (NowTv e Sky Go, Tim Vision, Apple Tv)

Del 1994, il film che ha fatto di Quentin Tarantino Quentin Tarantino non può essere compresso in poche righe, nemmeno scegliendo di scrivere solo un due/trecento aggettivi diversi (cosa che potremmo sempre decidere di fare, un giorno). Ricordiamo solo che in questa folle storia criminal-filosofica divisa in diversi atti, il primo e l’ultimo vedono protagonista proprio lui, il ‘piccolo’ criminale Zucchino, interpretato da Tim Roth con la consueta robusta vena di follia. In una storia in cui tutti sono matti a modo loro, il criminale che rapina ristoranti e che ha ambizioni di miglioramento è un matto/scemo, un criminale insignificante e ridicolo, che ha però l’onere di aprire il film, mentre progetta un colpo in un diner all’ora di colazione, e poi chiudere la storia quando i protagonisti Jules e Vincent riescono a dissuaderlo dal farlo, col potere della retorica e della piccola corruzione di un portafoglio moderatamente gonfio.

La leggenda del pianista sull’Oceano (TIM VISION, Infinity, Rokuten TV)

Del 1998, diretto da Giuseppe Tornatore e ispirato al romanzo di Alessandro Baricco “Novecento”, è la storia di un bambino che viene trovato appena nato, il primo gennaio del 1900, abbandonato su una grande nave da crociera, sulla quale cresce, senza mai scendere né conoscere altro che quella vita senza tempo, e sviluppando un talento per il pianoforte che lo trasforma in una leggenda. Tim Roth è il protagonista di questo film calligrafico,  interpretando un personaggio positivo una volta tanto, ma trovandolo nelle sue corde per la sua natura di oustider, di ‘diverso’, e regalandogli la propria introversa sensibilità, dando vita e sangue a una creatura che poteva rischiare di rimanere impigliata in una natura esclusivamente letteraria.

Il pianeta delle scimmie (Microsoft e Google Play tv)

Nella versione fumettistica e tecnologica del 2001, firmata Tim Burton, del capolavoro di fantascienza del 1968, Tim Roth, celato il volto dalle sembianze di una scimmia antropomorfa, interpreta la cattiveria senza appello del villain del film, quel Generale Thade che sul Pianeta delle scimmie è la dannazione di tutti, dei primati che lo governano e degli umani che ne sono schiavi. Una volta ancora, il talento di Roth garantisce la credibilità di un personaggio del tutto impossibile, tirando fuori l’espressività nientemeno che da sotto la maschera da scimmia, dando dimostrazione (come del resto Helena Bonham Carter) di quello che si può fare quando si padroneggia l’arte della recitazione, anche eventualmente con la testa dentro un sacchetto di juta.

 

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