The Social Dilemma (Netflix)
PRIGIONIERI DELL’ALGORITMO
voto 6.5

 

The Social Dilemma: guardare o non guardare il documentario Netflix sulla manipolazione sotterranea dei social network?

LA DENUNCIA

“The Social Dilemma” è una docufiction targata Netflix, in cui alcuni esperti di social network lanciano l’allarme sulla pericolosità degli strumenti che loro stessi hanno creato.
L’assunto è in sé semplice, e il dilemma, morale, chiarissimo: è corretto che i social network usino tutti gli strumenti a loro disposizione per manipolare l’utente  con l’unico scopo di generare profitti? E’ accettabile che l’utente il più delle volte non se ne renda conto, sia inconsapevole di questa manipolazione, o che pur rendendosene conto, non faccia nulla per riprendere in mano il suo potere di scelta?
No, che non è giusto, dal punto di vista etico: questa non è solo la risposta del documentario, ne è proprio il nucleo strutturale da cui tutto parte.
Infatti la sezione portante del film sono le interviste a tre personaggi che, dopo aver lavorato per i tre più importanti social network del mondo, Instagram, Facebook e Twitter, ne sono ‘fuoriusciti’ proprio per dei ripensamenti morali, non riuscendo a sopportare di sapere quello che sapevano a riguardo.

Tristan Harris era un consulente etico di Google, e già che il consulente etico si dimetta dovrebbe dare la misura di quanto sia poco etico tutto il sistema. L’ingegnere ora ha fondato il Centre For Human Technology, in cui studia come rendere la tecnologia e i sistemi di aggregazione virtuale meno cinicamente orientati sullo sfruttamento dei consumatori.
Justin Rosenstein è uno degli inventori del tasto ‘mi piace’ di Facebook, e la sua presenza ricorda in modo spiazzante che sì, è esistito un ‘prima’ in cui questa funzione così identitaria dei social non esisteva, e ne sottolinea l’abnorme importanza strategica: è attraverso i nostri like che veniamo manipolati, sono i nostri gusti che aiutano la tecnologia a profilarci e a guidarci verso prodotti da acquistare.
Jaron Lainer è un pioniere della realtà virtuale, di cui ha reso addirittura conosciuta la definizione stessa, che ora è un esponente del sempre più diffuso cyberpessimismo, e che gira il mondo cercando di avvisare le persone che la usano, che la tecnologia è deleteria e pericolosissima.
Shoshanna Zubov è una docente della Harvard Bussines School, autrice del libro “Il capitalismo della sorveglianza”, che esprime il fondamentale concetto che il capitalismo classico aveva un fine esplicito (condannabile o inevitabile, ma almeno non taciuto) mentre il capitalismo che si esprime attraverso i social e le tecnologie moderne ha un fine nascosto (o quanto meno mimetizzato), e cioè manipola il consumatore senza che lui se ne accorga, anzi, con la sua collaborazione attiva.
Questi quattro personaggi raccontano la propria esperienza ognuno da un punto di vista leggermente diverso, ma tutti danno lo stesso allarme: ognuno di noi, mentre usa i social network, STA PAGANDO DI TASCA PROPRIA PER FARSI DOMINARE.

Il nuovo ordine economico infatti sfrutta l’esperienza umana sotto forma di dati come materia prima per pratiche commerciali non dichiarate: questa la strettissima sintesi delle loro interessanti chiacchiere davanti alla telecamera. Il che a sua volta è sintetizzato dal claim ormai famoso che dice che ‘se non stai pagando per un prodotto che usi, allora il prodotto sei tu’.

Queste interviste a personaggi reali, e realmente allarmati, sono intervallate da una narrazione di fiction, che mostra le abitudini di una tipica famiglia americana in cui soprattutto il figlio adolescente è totalmente dipendente dai social network. Il ragazzo vive come in una bolla in cui niente è reale tranne quello che succede su Instagram e niente vale oltre ai like che prendono i suoi post. Ma la trovata narrativa è che quello che accade a lui è ‘commentato’ nella sua testa da quattro tizi che prendono nota di tutto per suggerire al loro ‘ospite’ cose da fare, vedere e soprattutto comprare. Con esplicito, e francamente ridicolo, riferimento al bellissimo film di animazione ‘Inside Out’, questa messa in scena simbolica di quanto accade nella testa di una persona dovrebbe servire a illustrare più chiaramente quali sono i meccanismi attraverso i quali i social ci manipolano. E, dato che il target del documentario  non sono i bambini, risulta veramente il punto debole dell’insieme.
Quello che dovrebbe risultare chiaro è come funzionano gli algoritmi che ci spingono a fare quello che facciamo: se mettiamo mi piace a un prodotto per capelli, gli omini nella nostra testa selezionano tutta una serie di prodotti che pubblicizzeranno nella nostra pagina e sui nostri social, di modo che noi compreremo anche cose che non ci servono e soprattutto diventeremo delle persone totalmente occupate dalla preoccupazione per la nostra capigliatura.
Ho chiesto a un quattordicenne se gli fosse piaciuto The Social Dilemma, e la sua risposta mi ha aperto orizzonti: “E’ noioso, dice cose che sappiamo già tutti”. Ed ecco quindi…

IL LIMITE

Il limite di questo ambizioso progetto lo evidenzia agilmente anche un ragazzino sempre intento a ‘spippolare’ sui social, anzi, lui prima di tutti: non c’è dilemma, è chiaro che è sbagliato che si venga usati come consumatori, e, soprattutto, i più smaliziati sanno benissimo cosa sta succedendo, e collaborano attivamente perché non c’è alternativa. Non siamo noi ‘utenti’ a poter/voler/dover fare qualcosa, chiaramente. Quindi? Quale è il suggerimento di The Social Dilemma?

Cosa si fa ora? Rinunciamo a tutto, come il cyberpessimista rasta che definisce Wikipedia un’espressione di maoismo digitale e suggerisce di non fare più ricerche su di essa? Dato che abbiamo capito che i social sono grandissimi produttori di fake news, e che veniamo manipolati anche a fini politici, cosa facciamo adesso?
E’ evidente che non sarà un documentario, per quanto ben fatto, che potrà risolvere la situazione e invertire la rotta della deriva raggiunta dall’uso dei social network. Però se un tema così enormemente importante viene messo al centro di un prodotto televisivo, non è accettabile che non venga portato alle sue più immediate conseguenze, e che non venga suggerita una soluzione più efficace e realizzabile di un generico ‘fate attenzione’.
Tanto più che viene il sospetto di una scelta strumentale, quella di limitare questo discorso ai social network, mentre invece il sistema di manipolazione degli utenti riguarda TUTTA la sfera delle interazioni digitali. Perché la stessa scelta di guardare The Social Dilemma su Netflix è stata astutamente suggerita da Netflix attraverso il sistema di tracciamento dei gusti realizzato dai condannati algoritmi, ovvero da quel sistema che The Social Dilemma si propone di denunciare e stigmatizzare.
 Da The Social Dilemma dunque potremmo passare a The Documentary Paradox, quando si capisca, guardando il documentario di Netflix, che anche la fruizione di Netflix si basa sui meccanismi perversi, manipolatori ed eticamente inaccettabili che questo documentario vuole criticare.

Dunque la conclusione è che tutto il meccanismo della fruizione di servizi digitali è un sistema illusionistico, basato sulla convinzione degli user di essere liberi di fare, vedere, cercare quello che vogliono, mentre invece le loro mosse sono manipolate attraverso i loro stessi gusti e le loro stesse scelte, come se un educatore usasse la tua stessa mano per rubarti gli spicci dalle tasche, evitando di lasciare impronte su di esse e facendoti convinto di essere stato tu a tirare fuori soldi, idee e anche un po’ di anima.

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L’ALTERNATIVA

Un algoritmo che non sia esso stesso un prodotto digitale, un algoritmo umano come quello che abbiamo noi, pensando con una testa vera e quel che rimane di una vera anima, potrebbe a questo punto proporre un’alternativa a The Social Dilemma per chi voglia addentrarsi nella conoscenza dei danni che può fare una tecnologia ormai follemente intrusiva su chi ne fa uso tutti i giorni, tutto il giorno.
E allora il suggerimento sarebbe di recuperare sulla nostrana RaiPlay un documentario del sempre meritevole Report, un episodio di Presadiretta, dal titolo Iperconnessi, andato in onda il 15 ottobre 2018.

Iperconnessi affronta un problema di portata più ampia ma sempre relativo all’argomento dell’uso invasivo  della tecnologia, in particolare dello smartphone e dei social, sulle vite delle persone: l’inchiesta è dedicata in particolare alle conseguenze sul cervello umano delle nostre vite interconnesse.
Un taglio quindi non solo sociologico, ma anche scientifico in senso lato, e perfino medico-biologico.
Con una ricchezza di contributi da diversi campi della conoscenza, la possibilità di annoiarsi o distrarsi è praticamente nulla. Le interviste, gli esperimenti, i dati, gli esempi sono incalzanti e chiariscono in modo inequivocabile tutti i termini della questione. Che è: noi oggi ogni giorno siamo su Internet per 6 ore, ci scambiamo 150 miliardi (MILIARDI) di mail66 miliardi di foto su Instagram, 44 miliardi (MILIARDI) di messaggi su whatsapp, e questo, tutto questo, sta cambiando non solo il nostro stile di vita, ma anche le nostre capacità cognitive.
Questo è lo spirito della documentatissima inchiesta del formidabile staff giornalistico di Report, e i giudizi che se ne possono trarre non sono suggeriti, ma è lo spettatore stesso che li estrapolerà dai dati inquietanti e spaventosi che passano sullo schermo. Dai danni che la postura da smartphone fa alle nostre ossa alla perdita dell’orientamento nello spazio, dall’influenza sull’umore alla pericolosità fisica dell’immersione costante nei social (ogni anni muoiono 6000 pedoni per disattenzione al telefono, sia degli automobilisti che dei pedoni stessi), la cronaca si fa sempre più preoccupante fino ad arrivare al vero nucleo del problema: l’eccesso di iperconnessione ha cambiato in peggio la nostra capacità di concentrarci, tanto che ora fatichiamo a rimanere con la mente su un solo concetto per più di 10 secondi.
Ecco quindi un altro modo per risolvere il ‘dilemma’ moderno, non tanto etico quando propriamente esistenziale: vogliamo davvero continuare a far succedere alla nostra specie quello che sta succedendo ora?
Se avete lo stomaco forte e pensate di riuscire a stare concentrati per più di 10 secondi (per volta), QUESTO è il documentario da vedere.
E, fidatevi, dopo averlo guardato, per un bel pezzo non terrete più il telefonino sulla scrivania mentre lavorate.
Poi, certo, ci tornerà, magari pilotato da un diabolico algoritmo telecinetico…

 

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