SU SKY DOCUMENTARIES VI CONSIGLIAMO LA VISIONE DI 5 DOCUMENTARI BIOGRAFICI PER SCRUTARE CON LA LENTE DI INGRANDIMENTO LA VITA PRIVATA E LA CARRIERA ARTISTICA DI TINA TURNER, ALFRED HITCHCOCK, ROBIN WILLIAMS, I BEE GEES E AUDREY HEPBURN. UN’INCURSIONE FRA I SEGRETI DEL LORO PASSATO, NEI RETROSCENA DEI LORO INIZI, MA ANCHE NELLE MAGLIE DI UN DESTINO SPESSO PROBLEMATICO.
TINA
Una delle regine del rock, Tina Turner, si confessa in una lunga intervista, ideale seguito della sua autobiografia cartacea, “My Love Story” uscita nel 2018. Altro materiale da mettere in catalogo per tutti i fan della cantante di Natbush, a tanti anni dalla realizzazione di “Tina – What’s Love Got to Do with It” (lo trovate in streaming su Disney +) con il quale Angela Bassett, nel ruolo appunto della Turner, conquistò il Golden Globe. Ogni resoconto dell’esistenza funky e turbolenta di Tina Turner non può esimersi dal soffermarsi sul sodalizio professionale e amoroso con Ike, così come non si può fare a meno di lasciarsi incantare dalle sfavillanti esibizioni live. La regia del biopic, che porta un marchio di garanzia (HBO), è di Daniel Lindsay e T.J. Martin. Nomi sconosciuti ai più ma già vincitori di un Oscar per “Undefeated” e autori di “1992 – La rivolta di Los Angeles”, il documentario che, a venticinque anni dal misfatti, tornava sui tumulti che misero a ferro e fuoco la città californiana in seguito al verdetto del processo contro i poliziotti che pestarono Rodney King.
I AM ALFRED HITCHCOCK
Raccomandiamo questo documentario perché ogni tanto, per quanto riguarda il cinema, bisogna uscire fuori dal bailamme di offerte streaming, spesso dozzinali e trascurabili, per risciacquare i panni nella grammatica del cinema classico. Oltre quindi a consigliare la visione di qualsiasi film di Hitchcock vi capiti a portata di telecomando, è doveroso conoscere più da vicino un cineasta che riuscì a rispettare le regole dello star system e al contempo confezionare film d’autore. Esecutore e precursore, quindi, che cesellava la suspense con bisturi e calibro. Hitchcock diede un nome alle nostre angosce più profonde e una bussola per andarle a cercare come fossero tesori nascosti e noi fossimo sia impauriti sia attratti dall’apertura dello scrigno. Tutti i suoi capolavori non hanno smarrito un briciolo di magia e sono ancora oggi inimitabili. Nel documentario, corredato da bellissimo materiale d’archivio, sfilano anche grandi nomi del cinema contemporaneo che hanno imparato tanto dal maestro del brivido: Steven Spielberg, John Landis, Eli Roth. Oltre a star assolute del passato come James Stewart, Ingrid Bergman, Grace Kelly e Tippi Hedren.
ESSERE ROBIN WILLIAMS
Un gesto estremo che ancora lascia allibiti, ma che trova la sua spiegazione proprio in questo documentario che ripercorre la lotta di Robin Williams, suicidatosi nell’agosto del 2014, contro la demenza a corpi di Lewy, una malattia degenerativa incurabile che causa allucinazioni, perdita di memoria, stato confusionale e altri sintomi devastanti. Una forma di demenza che fu l’antagonista di Robin Williams nei suoi ultimi mesi di vita, e l’antagonista dentro a questo documentario. A molti anni dalla morte conosciamo quindi il nemico che ha costretto alla resa uno dei più grandi intrattenitori di tutti i tempi. Un nemico che non è riuscito tuttavia ad eclissare il “Robin’s Wish”, il desiderio di Robin, durato per tutti i suoi 63 anni, di scaraventarsi sull’esistenza come una valanga, con l’impeto e la furia di chi, avendo già capito il senso della vita stessa, decise di divorarla. Robin Williams fu un clown, un acrobata, un improvvisatore, un distruttore di convenzioni sceniche. Un versatile artigiano del mestiere d’attore con un linguaggio del corpo in continua accelerazione, capace, tuttavia, di rannicchiarsi dentro ruoli più contenuti, sfoderando performance drammatiche più misurate. Da Mork al professore de “L’attimo fuggente”, dal trasformismo di “Mrs. Doubtfire” agli sproloqui torrenziali di “Good Morning, Vietnam”. Ognuno ha il suo Robin Williams preferito, il suo clown personale a cui affidarsi. Sempre esuberante e libero, fino all’ultimissimo istante.
THE BEE GEES: HOW CAN YOU MEND A BROKEN HEART
Presenze immanenti nell’immaginario collettivo per la colonna sonora di “La febbre del sabato sera”, che contiene perle di rara bellezza come “More Than a Woman”, “How Deep Is Your Love” e “Stayin’ Alive” i Bee Gees meritavano un riconoscimento speciale per la loro intera carriera, così come meritava di essere finalmente raccontata la loro parabola umana e artistica. Serviva un nome illustre per raccogliere e mettere in bella copia l’esorbitante materiale a disposizione. Il nome illustre è Frank Marshall, tra le più influenti eminenze grigie di Hollywood, produttore di un barca di kolossal, blockbuster, saghe e trilogie legate alla Amblin Entertainment, di cui fu fondatore insieme a Steven Spielberg. Non solo disco music, tanto per cominciare. I Bee Gees sono stati come dei droni che hanno sorvolato vari generi, dal beat al R&B, passando per il funky e il country rock. Si parla di circa 1000 canzoni composte, numeri da sballo per una delle più longeve band di sempre, nata dal sodalizio dei fratelli Gibb: Barry, Maurice e Robin. Ce ne era anche un altro di fratello, Andy, che preferì da subito la carriera solista. Sotto l’ingenerosa etichetta di musica commerciale, dribblando la patina, le cotonature e i riverberi stroboscopici, troviamo una storia scandita anche da maledizioni, tragedie e resilienza. Difficile non appassionarsi alla loro biografia fatta di giravolte e cambi di passo, scioglimenti e collaborazioni di alto lignaggio. Anche quando erano in fase calante, i Bee Gees riuscivano sempre a riprendersi il palcoscenico del mercato discografico tirando fuori una delle loro melodie ineccepibili. Poi ci si è messo il destino che ha portato via sia Andy per overdose e successivamente Maurice e Robin. L’aspetto che non passa inosservato, quando ci si immerge nella loro biografia è questo contrasto fra la loro immagine radiosa – che continua a rappresentarli – e la serie di mosse disoneste del destino con cui hanno dovuto fare i conti.
AUDREY
La storia completa e complessa di Audrey Hepburn: la principessa con gli occhi da cerbiatta di “Vacanze romane”, la musa di molti giganti del cinema (William Wyler, Billy Wilder, George Cukor), la testimonial speciale di Givenchy sin da quel tubino nero indossato in “Colazione da Tiffany”. La grazia e il portamento di Audrey Hepburn nell’arte e nella moda, così come il suo peso specifico nella cultura di massa lo percepiamo dalle immagini che scorrono in questo documentario di Helena Coan, che si aggancia alla vita della Hepburn sin dalla sua infanzia tribolata a causa dell’occupazione nazista in Olanda e a causa dell’abbandono del padre: una ferita che costò alla stessa Audrey la ricerca ossessiva di un amore incondizionato che lenisse le sue fragilità e le restituisse quella pace interiore che cercò di agguantare fino all’ultimo, quando divenne ambasciatrice Unicef. Prima del cinema ci fu il teatro, e prima ancora la danza classica. Nel documentario sono Francesca Hayward e Alessandra Ferri ad interpretare le coreografie che corredano, insieme a inediti filmati d’archivio, il racconto della Hepburn sulle punte, la passione che Audrey ebbe per il balletto. La testimonianza del figlio Sean Hepburn Ferrer (nato dal matrimonio con Mel Ferrer) ci concede di compiere qualche passo nella privacy di Audrey, nelle sue riflessioni più riservate. E ne emerge il ritratto di una donna che, più di ogni altra cosa, desiderava un lieto fine, come nelle commedie romantiche dell’età d’oro di Hollywood.