Su Netflix ha trovato una seconda vita di rinnovato successo una serie del 2017, Alias Grace, ispirata a un romanzo della stessa autrice del ‘cult’ The Handmaid’s Tale, Margaret Atwood.

Due serie di qualche anno fa, un’autrice canadese ottantaduenne conosciuta ma che sta vivendo una nuova giovinezza regalata dal passaggio dalla carta alla televisione, il tema della discriminazione femminile che rende tutto limpidamente attuale: questi i fatti che ci portano a parlare di Alias Grace, mentre insondabili per noi rimangono le motivazioni di certi corsi e ricorsi del successo di alcuni prodotti. Quindi non ci domandiamo perché si parla tanto, proprio ora, di Alias Grace, ma piuttosto chiediamoci se è corretto parlarne bene, come si fa in modo quasi generale.

 

 

In sei episodi Alias Grace riprende la storia del romanzo omonimo, pubblicato dalla scrittrice Margaret Atwood nel 1996, ispirato alla vera vicenda di Grace Marks, una giovane cameriera che, nella Toronto del 1843, fu accusata dell’omicidio del suo datore di lavoro e della di lui amante. La Atwood, da sempre interessata alle tematiche femminili, pone l’accento sulla differenza di trattamento riservata a Grace e al suo complice, che fu immediatamente condannato alla pena di morte,  mentre la giovanissima cameriera finiva prima in manicomio e poi in carcere, sospesa per trenta lunghi anni tra il ruolo di carnefice e quello di vittima di fatto ‘costretta’ all’azione criminale dalla sua condizione due volte discriminante, di donna e di povera.
La storia della ragazza, unita alla sua quasi angelica bellezza, suscitò molto interesse nella comunità dell’epoca, e la scrittrice parte da questo dato per dare la sua interpretazione di una storia che, oggettivamente, tanto chiara non è stata mai. Atwood immagina che dopo 15 anni di detenzione, alla non più tanto giovane Grace venga data una possibilità di scagionarsi e spiegarsi, facendole incontrare un ‘dottore della mente’, il dottor Simon Jordan. Questo il personaggio chiave, inventato, della storia e della serie tv: uno psicanalista ante litteram (nel 1858 Freud era ancora un bambino) che cerca di ripercorrere la storia della sua paziente, dall’infanzia fino ai fatti delittuosi che la vedono protagonista, rimanendo soggiogato  e parzialmente inebetito dal carisma malato ma innegabile della donna, sospesa anche per lui tra una dimensione angelicata e una rappresentazione materiale e carnale del Male.
Ed ecco che entriamo nel merito del giudizio: basta guardare il primo episodio per capire che questo telefilm ha una qualità eccezionale, che travalica tutte le questioni di merito e interesse del suo argomento per riguardare quelle squisitamente estetiche. La storia che Grace (interpretata da un’ottima Sara Gadon) racconta al suo medico cattura l’attenzione in modo totale, calando lo spettatore in un altrove spazio-temporale in modo così profondo che quando l’episodio finisce sembra di essere stati in apnea. Come si dice tra semplici ‘fruitori’ di televisione, Alias Grace ‘ti prende’.
Cosa ha fatto davvero Grace, e quali sono i suoi motivi e le sue giustificazioni? Perché ci racconta la sua storia partendo dal tragico viaggio dall’Irlanda al Canada? Perché intervalla le storie con le agghiaccianti immagini di quei due delitti che non nega di aver commesso? Perché dice che la sua confessione dell’epoca in cui fu condannata non era veritiera?
Questa storia che parla di donne e giustizia, che si presenta come una cronaca semi-veritiera di un fatto realmente accaduto, soprattutto è un thriller psicologico di sublime fattura. Allora ecco che il consiglio non solo si conferma, ma si sdoppia: vale la pena di guardare la serie non solo perché la sua autrice (Atwood collabora alla sceneggiatura, e fa addirittura un piccolo cameo nella serie) affronta un tema strettamente attuale –quello del rapporto tra colpa e immagine femminile, della difficoltà di capire che differenza c’è tra legittima difesa e spinta al male in un contesto in cui la donna non aveva praticamente armi per difendersi – ma perché la storia è un crescendo di mistero e tensione narrativa che non mancherà di inchiodarvi al famoso divano davanti allo schermo. In poche parole, il tema o la sottotraccia femminista non cannibalizza mai, in nessun momento, la pura esigenza narrativa e il giusto equilibrio della trama, ma ne è invece un corretto e necessario completamento.

Provate dunque a guardare questa breve ma intensa serie, il cui unico difetto sembra essere il fatto che non è The Handmaid’s Tale, serie arrivata alla quarta stagione e diventata un vero cult internazionale, che per questo meriterebbe, anzi meriterà, un articolo a sé stante ben presto.

 

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