POCHI MA BUONI. ANZI, BUONISSIMI: LA STORIA DELL’UOMO CHE SFIDO’ HITLER RACCONTATA DA UN SUPER CINEASTA, LA PLURIPREMIATA PARABOLA DI UNA FAMIGLIA DI IMMIGRATI PIONIERI, IL MAGICO INCONTRO FRA DUE ANIME DELLA COMICITA’ AMERICANA. 3 FILM DA NON PERDERE SU SKY DA MAGGIO. PAROLA DI ALGORITMO UMANO.

 

LA VITA NASCOSTA – HIDDEN LIFE

La carriera cinematografica di Terrence Malick assomiglia alla carriera letteraria dello scrittore americano Thomas Pynchon. Entrambi riservati e inafferrabili, hanno centellinato le loro opere per anni, prima di dare alle sale di proiezione o alle stampe (e ai loro fan più calorosi e impazienti) un gruppo di nuovi prodotti tutti insieme, Fino al 2011, l’anno di “The Tree of Life”, un film di Malick era atteso come l’arrivo di una cometa. Da quel monento in avanti il cineasta di Waco, Texas, ha sfornato in pratica film a ripetizione. L’ultimo in ordine cronologico è questo “La vita nascosta – Hidden Life”, biopic su un super obiettore di coscienza, storia vera del contadino austriaco Franz Jägerstätter che nel 1938, dopo l’annessione del suo paese alla Germania, si rifiutò di giurare fedeltà a Hitler e di combattere per il nazismo. Una scelta di libertà audace e pericolosa per il quale era prevista la pena capitale. Perché un regista texano ha scelto di raccontare la storia di un contadino austriaco? Come amalgamare un’idea di cinema basata sulla contemplazione e la dilatazione con un percorso biografico burrascoso ma lineare e netto? Forse Malick ha voluto esplorare i territori inesplorati e a volte inospitali di un’anima dalla fede granitica, còlta nel punto più alto della sua coerenza, per illuminarla dall’interno, nel suo conflitto con il male, nell’idea stessa di sacrificio. Da sempre ossessionato dalla ricerca del cinema e dell’immagine nella sua essenza, Malick si ostina a individuare quella ‘sottile linea rossa’ e a camminarci sopra, come un equilibrista, spinto dalla convinzione che un linguaggio, il linguaggio del cinema debba esplorare ed esplorarsi senza sosta. Un assillo e una testardaggine quasi religiosa. Come quella di Franz Jägerstätter. In fin dei conti una ricerca ossessiva del principio di libertà.

 

MINARI

“Minari” è uno dei film dell’anno. Prende il nome da una piantina da condimento molto usata nella cucina coreana e racconta il sogno americano dalla prospettiva di Jacob, immigrato della Corea del Sud, che convince sua moglie e i figli a lasciare la California, con i suoi impieghi precari, per andare in Arkansas e creare una fattoria di tipici prodotti agricoli della sua terra d’origine. Una start-up, come si dice oggi. Un nucleo familiare straniero che cerca di riassettarsi nell’America dell’entroterra più contraddittorio, evitando di lasciarsi ferire da una sorta di diffidenza, invisibile ma ostinata, destinata alle etnie diverse, specie se con questa etnia, l’America ci ha fatto a fucilate nei primi anni ‘50. Il film è ambientato negli anni ‘80 di Reagan ed è uno di quei preziosi prodotti cinematografici ‘a misura’, che sembrano non raccontare nulla, ma sono in grado di sprigionare, sovrapporre e stritolare le riflessioni più intrinseche del temperamento umano. Specie grazie al corto circuito provocato dall’arrivo in Arkansas di un’anziana madre (interpretata dall’attrice Yoon Yeo-jeong, premiata con l’Oscar) dai modi singolari e fiera della propria cultura tradizionale. Una famiglia di pionieri alla conquista della terra dei pionieri per antonomasia per seminare l’idea avvincente del multiculturalismo. Una storia semplice capace di afferrare impulsi, riflessioni e soffi vitali. Ne sono stati convinti anche i giurati del Golden Globe che gli hanno assegnato il premio come miglior film straniero. E gli spettatori esigenti, cinefili e molto liberal del Sundance dove “Minari” ha conquistato il Premio del Pubblico e il Gran Premio della Giuria.

 

IL RE DI STATEN ISLAND

Certi film possono essere già gratificanti nelle intenzioni e nelle ambizioni. E suscitare una curiosità ripagata a prescindere, anche se un po’ disordinati, non del tutto riusciti. “Il Re di Staten Island” segna l’abbraccio formale fra due nuclei portanti della comicità americana: il Saturday Night Live e la visione del mondo e del cinema di Judd Apatow, il cui nome è diventato un marchio di fabbrica per certe vette demenziali ed iconoclaste, raggiunte insieme a quella pattuglia di pazzi scatenati in cui militano personaggi come Seth Rogen, Jonah Hill, Steve Carell, James Franco, Jonathan Levine e molti altri, in un incrocio di collaborazioni, comparsate, scambi di intuizioni, ponti costruiti nel nome di uno sguardo sballato ma romantico, piacevolmente insistente nelle riletture della commedia (e della dramedy) da inaspettati punti di vista. Il Saturday Night Live è qui rappresentato dal protagonista e ragazzo prodigio della comicità Usa, Pete Davidson, che ha scritto insieme ad Apatow e interpretato quello che è, a tutti gli effetti, un film sulla propria vita. Il personaggio di Scott Carlin, dissociato, interrotto, disfunzionale è ricalcato in parte sulla propria esperienza. E il luogo, Staten Island, già di per sé si carica sulle spalle una difformità dal cliché del film newyorkese, essendo, tra i cinque borough della Grande Mela, il più lontano dalla ribalta, una sorta di provincia interna all’ombelico del mondo. Qui vaga in cerca di identità un ventenne che fugge da un trauma, la morte del padre vigile del fuoco, sollazzandosi in un suo liquido amniotico esistenziale fatto di marijuana, cazzeggio, rifiuto di responsabilità. E rifiuto di confrontarsi con quel dolore, tentando di rimuoverlo ma impossibilitato ad arrendersi all’evidenza. Fino a trovare forse una luce in fondo al tunnel, in coda a un romanzo di formazione volutamente anticonvenzionale, dispersivo, non lineare. Sembra quasi che il punto di arrivo sia una serenità transitoria ma comunque accettabile, al posto dell’inconcludenza come stile di vita mentale. “Il Re di Staten Island” è un film da non perdere per chi ama stazionare in quel crocevia, in quello stallo alla messicana in cui si fissano negli occhi il cinema indipendente, la commedia irriverente, l’elogio della marginalità, e la comicità come chiave per leggere se stessi e il presente. Su tutto poi questo amore incondizionato con cui Apatow sorveglia i suoi personaggi, buffi, insolenti, infantili e scomodi, trasformandoli in un patrimonio da custodire.

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