SU NETFLIX LA SERIE “ANATOMIA DI UNO SCANDALO” : DAVID E. KELLEY FIRMA UN THRILLER PROCESSUALE CHE E’ UNA SORTA DI VERSIONE BRITISH E AGGIORNATA AL ME TOO DEL SUCCESSO INTERNAZIONALE “THE UNDOING”

SCANDALO DOLCE SCANDALO
Gli Inglesi sono un popolo affascinante ma contraddittorio: la Gran Bretagna è patria del conformismo supremo – quello della divisione sociale tra nobili e commoners, inalterata da due millenni – e allo stesso tempo nucleo della ribellione più trasgressiva – si sviluppano proprio qui nel Novecento il rock e il punk con il loro dirompente portato libertario. All’interno questa contraddizione prospera allegramente la passione ambigua degli Inglesi per lo ‘scandalo’: scandali a corte, nei palazzi del potere, nelle magioni di campagna apparentemente sobrie e severe ma dentro le quali si perpetrano le più selvagge infrazioni al codice morale, sociale, del decoro. Attualmente fruibili ci sono almeno tre serie basate su questo gusto per il rimestare nel torbido delle classi cosiddette ‘alte’: A Very British Scandal (Tim Vision, con Claire Foy nei panni di una duchessa del ‘900 che sconvolse i benpensanti con la sua rivoluzionaria condotta matrimoniale), il quasi omonimo A Very English Scandal (sempre Tim Vision, con Hugh Grant che interpreta un parlamentare degli anni ’60 che, omosessuale quando esserlo in Inghilterra era un reato, per evitarsi lo scandalo forse tentò di uccidere il suo amante troppo ciarliero), e questo nuovissimo Anatomia di uno scandalo, che racconta la vicenda di un ministro Tory, con la più classica delle famiglie perfette, che finisce nell’occhio del ciclone per una relazione extraconiugale suggellata da una bella accusa di stupro.

LA STORIA NUDA E CRUDA
Facciamo finta per un momento di non sapere che il creatore della serie è lo stesso di The Undoing e di Big Little Lies, David E. Kelley, cioè un appassionato, lucidissimo castigatore delle classi sociali alte, dentro cui affonda un acuminato bisturi analitico per tirar fuori le ‘allucinanti’ contraddizioni che si nascondono dietro lo sfarzo e l’apparentemente cristallina moralità dei suoi componenti. Ci torniamo dopo. Anatomia di uno scandalo è una storia ambientata ai nostri giorni in Inghilterra, e vede protagonisti un piacente giovane ministro conservatore che ha tradito la pur bellissima moglie con una sua impiegata, la quale ultima dopo essere stata scaricata lo accusa di averla stuprata in un ascensore del palazzo della Camera dei Comuni. Una severa e accigliatissima avvocatessa cercherà di inchiodare il politico e farlo condannare per la violenza che è sicura abbia davvero commesso.
Quando la realtà del tradimento viene pubblicata da un giornale scandalistico, il ministro James Whitehouse (Rupert Friend, visto in “Homeland”, una vaga ma spiazzante somiglianza col più celebre Orlando Bloom) ammette subito con la moglie Sophie (Sienna Miller, nota soprattutto per essere una ex di Jude Law) di aver avuto una relazione impropria, se ne mostra pentito e si scusa, e la bionda comprensiva consorte decide di appoggiarlo davanti a tutta l’Inghilterra mentre chiede venia per la sua scappatella in diretta tv. I sorrisi non vacillano, per ora, solo che non è finita qui. Perché la donna con cui James ha avuto una relazione (interpretata da Naomi Scott, la Jasmine della versione non cartonata di Aladin), a questo punto, lo accusa di averla stuprata. Non l’ho stuprata, come vi viene in mente, abbiamo solo fatto sesso una volta di più. E come mai lei dice che è stato stupro? E che ne so?
Il twist, l’originalità di questo titolo, la sua attualità aggiornata alle tematiche del me too, sono contenuti in questa svolta narrativa. Whitehouse sembra simpatico, sembra sincero, in fondo ha ceduto a un impulso (beh, ha ceduto per CINQUE MESI a un impulso…) e poi ha interrotto la relazione, la sua bella famiglia è con lui, e in fondo miss Olivia Lytton aveva fatto sesso con lui tante altre volte, non solo consenziente ma propositiva, appassionata, vogliosa… Ed ecco qui dove casca l’asino del patriarcato misogino introiettato fino a renderlo spontaneo!
Le testimonianze della giovane amante e le domande incalzanti della sua avvocatessa (Michelle Dockery, la snobissima Lady Mary di Downton Abbey) tessono una trama che smaschera l’errore che è di tutti, anche degli spettatori: non importa quante volte sei stata tu a proporti e provocare un uomo, se una sola, unica volta hai anche semplicemente sussurrato ‘non qui’, allora quell’uomo si sarebbe dovuto fermare. Non deve avere importanza quanto l’abitudine a ottenere quello che vuoi abbia mal-forgiato la tua mente e i tuoi istinti, un no, anche di tua moglie, è un no. Se la forzi a fare sesso, è violenza. Questa la traccia ‘metodologica’ del thriller che puntata dopo puntata passa dal punto di vista del ministro a quello dell’amante, a quello della moglie e soprattutto dell’avvocatessa dell’accusa.

STUPRO O NON STUPRO?
Seguire il dibattimento in aula della vicenda è particolarmente intrigante, perché le due avvocatesse, l’algida miss Woodcroft che si accanisce contro l’uomo violentatore e la tosta Angela Regan che lo difende e guarda con condiscendenza la piccola accusatrice piagnucolante, sono in grado ogni volta che prendono la parola di far parteggiare per il proprio assistito. Un botta e risposta nella miglior tradizione del thriller processuale che però non esaurisce la trama. Mentre in tribunale si discute e Whitehouse cerca di venir fuori da una situazione oggettivamente di cacca, diversi flashback fanno luce sul suo passato di studente non proprio impeccabile, e soprattutto su alcuni confusi segreti che condivide nientemeno che con il Primo Ministro, il quale guarda caso non lo ‘molla’ nonostante questa imbarazzante, vergognosa causa per stupro che getta ombra su tutto il governo. Più di così, è spoiler: diremo solo che diversi colpi di scena vengono fuori dall’andirivieni tra passato e presente, e qualcosa nella vita stessa dell’avvocatessa dell’accusa risulta poco chiaro e potenzialmente deflagrante per il caso. La tensione cresce e aumentano i dettagli sulla vita dell’imputato, che di colpa ne ha sicuramente una e bella grossa: essere rampollo di una famiglia che gli ha insegnato che a lui e quelli come lui tutto è dovuto, e che alla realizzazione sociale e professionale tutto è sacrificabile. Anche l’etica, perché non c’è etica oltre quella del successo personale, anche i valori, perché l’unico valore è mantenere il rango e lo status con cui si è nati. Perché siamo Whitehouse! come James insegna a gridare con inquietante giubilo al suo figlio bambino…
In questo crescendo, cresce la consapevolezza della moglie, che capisce di non aver voluto capire niente finora dell’uomo che ha sposato: una crescita e un cambiamento che caratterizzano il personaggio di Sophie Whitehouse, sotto i cui piedi si spalanca il baratro dell’ipocrisia più spaventosa, e a cui tocca decidere se ha abbastanza pelo sullo stomaco per sopportarlo. Anche al netto dello stupro, che fino all’ultimo non capiremo se c’è stato o non c’è stato, Sophie dovrebbe riuscire ad accettare la squallida bruttezza dell’animo dell’uomo che le è accanto da 15 anni, un cavaliere senza paura ma sicuramente pieno pieno di macchie.

THE UNDOING E L’INGIUSTO PARAGONE
Il produttore e creatore della serie racconta, di nuovo come in “The Undoing” (qui raccontavamo quanto ci era piaciuto), la storia di un disfacimento, del disgregarsi di un nucleo apparentemente perfetto ma fatalmente marcio alle radici. Cambia solo il tipo di upper class descritta, in “The Undoing” era l’alta borghesia colta newyorkese, qui la gentry quasi nobile inglese, quella che detiene le leve del potere e guida la vita della società. Le somiglianze tra le due serie sono troppe per ignorarle, e chi abbia visto la quella del 2020 sa già che il paragone è impietoso, ingiusto e gioca a sfavore della produzione inglese. E tuttavia non si può non farlo.
E’ vero che la trama di “The Undoing” era mossa dall’indagine su un delitto brutale ed efferato, quindi il pathos della narrazione era di grado inevitabilmente più alto: ma questa è la prima pecca imputabile ad “Anatomia di uno scandalo”. Mettere al centro della storia uno stupro, il dubbio che un atto sessuale si sia trasformato in violenza, e non rendere questo dubbio abbastanza sconvolgente e coinvolgente è un peccato imperdonabile. La freddezza del clima very british rende latitante l’empatia che servirebbe a parteggiare più nettamente per la giovane donna (forse) violentata, della quale non si capiscono davvero le intenzioni ed emozioni. Ma più che alla sceneggiatura, temo, la mancata immedesimazione nelle storie dei personaggi è ascrivibile agli attori. Ed è soprattutto qui che il confronto con “The Undoing” si fa crudele. La moglie tradita, la pur volenterosa Sienna Miller, risulta prima incredula e poi sembra al massimo scocciata, mentre in tribunale il marito e padre dei suoi figli ammette candidamente di aver fatto sesso con una collega nei lindi uffici del governo inglese, e di averlo fatto per un’attrazione incoercibile e qualcosa che somigliava da vicino all’amore. E quando l’avvocatessa va più a fondo e più in là nel passato dell’imputato, e la moglie ricorda quanto negli anni aveva rimosso sugli ‘incidenti’ del suo allora fidanzato, lo sgomento le fa al massimo accendere una sigaretta di troppo sul terrazzo di casa, o rispondere freddamente alla figliolina che le chiede come sta. Troppo difficile paragonare questo composto fastidio all’implodere silenzioso ma inarrestabile del personaggio che in “The Undoing” interpretava una superba Nicole Kidman, capace di trasmettere quasi senza battere ciglio l’intensità della sua catastrofe interiore. Ma soprattutto il presunto colpevole, il ministro che forse ha stuprato la sua amante o forse ha solo sorpassato un limite che non sapeva esistesse, non riesce ad essere grande né nel bene del suo fascino né nel male della sua diabolica presunzione di casta e di genere. Dove Hugh Grant riusciva a passare da angelo adorabile a demone repellente in una stessa inquadratura, Rupert Friend non riesce a dare una vera definizione al suo personaggio. Restituendo un uomo tentennante, non troppo credibile nei panni del seduttore ma nemmeno in quelli dello stupratore, né pentito né orgoglioso, né odioso né amabile. Se è un bene per la storia che il ministro risulti ambiguo, è difficile per lo spettatore appassionarsi davvero alla sua vicenda. Come a quella dell’avvocatessa, nel cui passato si cela un punto di congiunzione che è fin troppo contiguo al caso: la supponenza del personaggio e la freddezza puntigliosa e petulante che Michelle Dockery ha conservato dalla sua Lady Mary Crawley rendono davvero improba la fatica di apprezzarne l’operato e compiangerne la storia.

La conclusione di tutto questo discorso è la seguente: “Anatomia di un delitto” è una serie thriller da 7 pieno, ma, non potendo fare a meno di essere comparato con il suo pur non dichiarato ascendente “The Undoing”, finisce raggiungere appena appena la sufficienza. Guardate, paragonate, criticate, non scandalizzatevi.

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