SU AMAZON PRIME DISPONIBILI I PRIMI CINQUE EPISODI DI “BANG BANG BABY”, ORIGINALE SERIE ITALIANA AMBIENTATA NEGLI ANNI ‘80 TRA LE SCUOLE SUPERIORI DI BUSSOLENGO E IL POTERE INFINITO DELLA ‘NDRANGHETA CALABRESE, CON CONTORNO DI IRONIA

Non recensirò Bang Bang Baby, di cui sono disponibili in streaming su Amazon Prime le prime cinque puntate: per dare un giudizio valido è necessario che veda anche le prossime cinque (in uscita dal 19 maggio), in ossequio alla regola autoimposta secondo cui non esiste critica prima della conclusione.
Come non si può sapere se una ricetta ci è piaciuta prima che ne sia finita la cottura, così bisogna vedere come viene portata a termine la per ora interessante trama di questo titolo, il primo di produzione interamente italiana creato per Amazon, prima di formulare un giudizio articolato. Quindi, di seguito solo la storia e qualche motivo per cui vale la pena di andare a scoprire la prima parte, e trepidare leggermente in attesa della seconda.

LA STORIA
Siamo nel 1987. La protagonista della storia è Alice Giammatteo, sedicenne un po’ sfigata che vive con la madre a Bussolengo, vicino a Milano, convinta che suo padre sia morto quando lei aveva sei anni. A mettere in moto la vicenda è un articolo di giornale su un uomo arrestato a Milano per atti osceni, nella cui foto Alice riconosce proprio suo padre, Santo Barone (Adriano Giannini, qui spaventosamente somigliante a suo padre Giancarlo), vivo, vegeto e con le pudenda di fuori.

Stravolta dalla scoperta di non essere orfana, Alice inizia un viaggio che è un percorso metaforico alla ricerca delle proprie radici, riavvicinandosi alla figura paterna e allontanandosi da quella materna, colpevole di averle mentito sul padre e in fin dei conti sulla sua stessa identità. La madre, una Lucia Mascino che mette in scena una vena inaspettatamente comica, ha modificato la realtà per proteggere la figlia, perché Santo e la sua famiglia, i Barone, fanno parte di un clan calabrese legato alla ‘ndrangheta, non proprio l’ambiente ideale per una crescita serena.

Per Alice dunque improvvisamente lo scenario della vita si sdoppia: da una parte la realtà triste e polverosa di una scuola in cui viene bullizzata e che la porterà a diventare un’operaia senza futuro come sua madre, dall’altra l’oscura grandezza della famiglia Barone, con cui la ragazza riprende i contatti e il cui capo è Donna Lina, boss che si candida a comandare tutti i clan della Lombardia, creando una figura di controversa ma affascinante potenza femminile.

Riavvicinandosi alla nonna e cercando di aiutare il padre in galera, Alice entra in un giro di quelli da cui certamente non puoi uscire: morti ammazzati, valige piene di soldi, cadaveri da far sparire, capi clan da ingannare, polizia da evitare, testimoni scomodi da gestire, pistole cariche da nascondere nello zainetto della scuola.

Alice sfugge al controllo della madre e poi anche della nonna capomafia, si muove per conto di quel padre che ha finalmente ritrovato ma soprattutto inizia ad agire secondo una volontà autonoma, alla ricerca di quella identità che fino ad ora non aveva sentito realmente sua: cambia nome, infatti, e pretende di essere a pieno titolo Alice Barone, a figghia ‘e Santino.

Mentre inganna i membri apparentemente più scaltri della ‘ndrangheta per salvare suo padre da morte certa appena uscito di galera (per Santo la prigione e l’accusa di atti osceni sono l’ultimo dei problemi), Alice dunque si modifica, cresce, si getta consapevolmente a capofitto in un mondo criminale con valori tutti suoi, mossa dall’unico valore che le interessa, quello di capire chi è, e cosa deve fare della sua vita.

IL VALORE DEL NON VALORE
E’ piacevolmente spiazzante vedere una serie italiana che, pur incentrata su un’adolescente, rinuncia all’intento smaccatamente pedagogico, e mette in scena un romanzo di formazione che, per ora, non porta certo sulla via della virtù.

Ci piace questo rifiuto del conformismo, che sembra nascere da un’insofferenza per le definizioni e che rende la serie quasi ‘inclassificabile’, non incasellabile: non un teen drama alla ‘Un professore’ con i suoi episodi a sfondo filosofico-morale, ma nemmeno un vero gangster movie alla ‘Gomorra’ degli under 18, nonostante i mammasantissima le armi e i pestaggi con relativi vividi schizzi di sangue.

Perché non si prende troppo sul serio, Bang Bang Baby: è l’ironia, il lato grottesco, che staccano questa serie dal magma di prodotti simili, e lo rendono interessante.
Per esempio come nella scena in cui Donna Lina, per parlare con una sospetta traditrice, si inserisce in una lezione di aerobica dove fa il suo interrogatorio mafioso saltellando impassibile nel suo vestito a lutto e con la borsetta al braccio, o nel personaggio di Nereu, criminale mafioso ottuso e senza pietà che si riesce a calmare solo con le canzoni di George Michael, preferibilmente la dolcissima Careless Whisper.

Un’altalena tra l’azione criminale incalzante e il romanzo di formazione di Alice, più le gag di una sit-com anni ’80, non per caso esplicitamente citate in diversi momenti: questa è la cifra che serve a descrivere Bang Bang Baby. E si sa, sull’altalena ci si diverte.

GLI ANNI ‘80
I vestiti, coi pantaloni a vita alta e quei piumini firmati per cui si era disposti (qui letteralmente) a uccidere; gli arredi, con i servizi di tazze del Mulino Bianco e i bicchieri della Nutella; la musica, quella commerciale che ti si è ficcata in testa 40 anni fa e ancora non si è tolta e quella autoriale recuperata ultimamente (la splendida Monna Lisa di Ivan Graziani come sottofondo surreale delle scene più violente); la televisione commerciale, col suo potere estetico, politico, (dis)educativo che proprio allora inizia a dimostrare tutta la sua forza.

Gli anni ’80 sono ricostruiti nella serie in modo PERFETTO, senza nostalgia estetizzante ma in modo stilisticamente inoppugnabile.

Per chi come Alice nel 1987 aveva 16 anni (io, per esempio), l’effetto di immedesimazione è straniante e stuzzicante (anche se non abbiamo avuto un padre gangster, chi non masticava Big Babol, guardava i programmi delle tv regionali, veniva leggermente bullizzato da un ragazzo col ciuffo che teneva il Moncler anche in classe?), per gli altri rimane la fascinazione di un periodo che, inspiegabilmente, torna di moda.

ALICE: ARIANNA BECHERONI
Bello il personaggio di Alice, prima spaesata poi decisa a diventare quello che il suo DNA prevede, in una sorta di determinismo esistenziale inconsapevole e fatale.

Bello perché, mentre passa da studentessa timida a tipa tosta che aggredisce chiunque osi anche solo sbagliare il suo cognome, la sua voce fuori campo mostra tutti i dubbi e le contraddizioni che questo comporta: Alice sta cercando sé stessa, come in fondo fanno tutti gli adolescenti da prima che esistesse il concetto di adolescenza, e capisce presto che quello che dà senso a tutto è il bisogno di amore, che accomuna tutti, in tutti gli ambienti più assurdi che le capita di intersecare.

Bello il personaggio, bravissima l’attrice.

Arianna Bacheroni è perla più lucida dell’intero cast: intensa, credibile, convincente, ambigua, cattiva, tenera, indifesa, coraggiosa. Arianna recita una ragazza che recita (l’adolescenza è la prova generale di quel film che è la propria vita: definizione mia), l’Alice che cerca di adeguarsi a un personaggio -nuovo- che si è appena inventata. Doppio carpiato, riuscito senza schizzi.

LA REGIA
Nella scena iniziale, ambientata tre mesi dopo i fatti che stiamo per conoscere, Alice guarda la pubblicità delle Big Babol in tv, e poi sale nella macchina di due criminali che le affidano una missione marchiandole la fronte col sangue.

Mentre la voce fuori campo dà un minimo di contesto e la pioggia fuori scende scrosciante, una Big Babol gigante solleva la vettura, lentamente, con dentro il suo carico umano e criminale, come se la cingomma rosa più stucchevole mai inventata fosse l’unico modo per la protagonista di uscire dal casino in cui si è cacciata.

Non vorrei aggiungere molto altro per commentare la regia di Michele Alhaique (Romulus) Margherita Ferri (Zero) Giuseppe Bonito, per dire che ci sanno fare eccome e che la nomination per Canneseries 2022 è ben meritata.

La regia restituisce un mondo realistico (una famiglia operaia, una ‘ndrina calabrese con problemi di gestione) ma lo segmenta, lo straccia, lo contamina con invenzioni tra il surreale e il grottesco, che sporcano la grana verosimile e avvincono chi guarda trascinandolo in un mondo ‘favoloso’, a cavallo tra il punto di vista di un’adolescente mezzo svitata e la parodia dei programmi televisivi scintillanti del Biscione prima maniera, quando l’accozzaglia trash ancora era spacciata per stile.

IN SINTESI
In sintesi: nessuna sintesi. Bang Bang Baby ci è piaciuto moltissimo finora, speriamo che gli episodi che seguono non ci rovinino questo ottimo antipasto. Andate a guardarvelo e, come dicono quelli che fanno le riunioni di lavoro online, ci aggiorniamo quando avremo tutti visto l’intera serie.

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