UN PICCOLO GRANDE FILM, COSTRUITO SULLE FONDAMENTA DEL TIPICO ROMANZO DI FORMAZIONE, TRAINATO DALLA VITALITÀ DELLA COMMEDIA AD ALTEZZA DI BAMBINO E DALLO STUPORE DEL PICCOLO PROTAGONISTA DAVANTI AL DRAMMA. KENNETH BRANAGH ATTINGE DALLA SUA INFANZIA PER FOTOGRAFARE, IN UN NOSTALGICO BIANCO E NERO, UNA COMUNITÀ ALL’ALBA DELLA TUMULTUOSA QUESTIONE IRLANDESE.

BELFAST

(Sky/Now)

L’Oscar e il Golden Globe alla sceneggiatura premiano la scrittura minimale e appassionata di Branagh. Un riconoscimento che si aggiunge al Bafta per il miglior film britannico, al premio ricevuto alla Festa del Cinema di Roma nella sezione ‘Alice nella città’ e al premio del pubblico al Festival di Toronto. Se ci mettiamo anche il consenso esteso ricevuto da “Belfast” presso il reame dei critici, ci troviamo di fronte alla classica opera che, nelle sue sfumature, mette tutti d’accordo.

Branagh la racconta in bianco e nero, per marcare l’allontanamento temporale della vicenda e forse anche per mitigare l’enfasi delle altre pellicole che compongono la sua filmografia: dalle immersioni nei complessi testi shakesperiani, fino alle spettacolarità barocche dei recenti flirt con l’amata Agata Christie (ne parliamo QUI). E naturalmente considerando anche la tappa nel parco dei divertimenti della Marvel con la regia di “Thor” nel 2011.

Kenneth Branagh aveva 9 anni nel 1969, un bambino cresciuto in una famiglia operaia e protestante, proprio come il suo alter ego del film, Buddy (esordio sul grande schermo per Jude Hill). Il punto di vista è esclusivamente il suo (e quindi di Branagh bambino) così come la percezione della comunità che il protagonista vede trasformarsi all’inizio dei ‘Troubles’, ossia il conflitto nord-irlandese tra Nazionalisti Cattolici e Unionisti Protestanti che si sarebbe protratto con bassa ma costante intensità fino agli 90. La metamorfosi brutale di una comunità in cui cattolici e protestanti convivevano, fino ad allora, pacificamente.

Tuttavia Branagh non analizza la genesi della stagione delle intimidazioni e delle bombe. Ne mostra gli effetti: la diffidenza, le ronde, i sermoni dei sacerdoti, le aggressioni e soprattutto il ricatto morale dei leader che pretendono una presa di posizione, il coinvolgimento diretto nella guerra. Ma agli occhi di Buddy, la contrapposizione tra bene e male non è quella tra protestanti e cattolici, o viceversa. La biforcazione riguarda il luogo in cui sta crescendo. Il Bene è la comunità pacifica e fiabesca, il Male è lo squarcio che incrina il tessuto collettivo. E che potrebbe costringerlo a lasciare Belfast.

Branagh omaggia una città che si raccoglie attorno a una manciata di strade: per Buddy sono uno scudo di protezione, sono il mondo intero, in cui cullarsi per costruire il suo immaginario e sognare di conquistare la compagna di scuola Catherine seguendo i consigli del nonno, prima che gli attriti del conflitto cambino il profilo alla città, facendo diventare i vicini di casa dei nemici da odiare. Un immaginario che si compone di codici condivisi da imparare nei cinema, a teatro o leggendo i fumetti.  In queste scene dedicate all’arte il film si accende letteralmente, perché dal bianco e nero cede al fascino brillante e caloroso del colore.

È naturalmente il film più personale e spontaneo di Kenneth Branagh, il suo amarcord per rielaborare la perdita della sua innocenza, e dell’innocenza di Belfast. Il tipico film che a un certo punto arriva nel tragitto di ogni artista, come un disco unplugged, o un inventario che ricalca i contorni di una pagina del passato, la estrae dal registro dei ricordi confusi e ne scrive la copia bella e definitiva.

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