Blur Vs. Oasis – La Rivoluzione del Brit Pop
(sky arte/skygo/nowtv)

Voto 8

 

L’urlo e la nostalgia di un’epoca d’oro

Uno dei pezzi fondamentali del Brit Pop è “Common People” dei Pulp (dall’album “Different Class” del 1995) ed è la storia di una ragazza ricca e viziata che vuole provare l’ebbrezza della vita proletaria (“because you think that poor is cool”); vuole vivere come la gente comune del titolo ma, nonostante i tentativi di facciata (“Rent a flat above a shop”, “cut your hair and get a job”) non conoscerà mai a fondo il significato del fallimento quotidiano, né l’angoscia del vedere la propria vita sfuggire di mano (“with no meaning or control”). Né sarà in grado di afferrare quei momenti in cui sei talmente a terra che l’unico sollievo fugace è ballare, ubriacarsi e scopare tutta la notte (“Because there’s nothing else to do”).

Il senso di quella breve e intensissima stagione musicale che fece da ponte tra gli anni thatcheriani e la ‘cool Britannia’ di Tony Blair viene ipotizzato con mente ferma e lucida nel finale del documentario “Blur Vs. Oasis – La Rivoluzione del Brit Pop” ed è, in sostanza, la rivincita della street culture e della working class, che in pochi anni furono in grado di dettare i gusti al mercato e non viceversa. Per poi ovviamente essere etichettati e mercificati dal mercato stesso, come sempre avviene. Fortunatamente, per certi versi, altrimenti non sarebbe esistito il rock stesso, né il punk, la disco music, o il grunge. Tutte resurrezioni e riconquiste in una perenne oscillazione fra conservatorismo e innovazione prorompente.

Furono “Glory Days” (di nuovo, struggenti, i Pulp – ormai in pieno 1998 con l’album “This Is Hardcore” –  a rimembrare malinconicamente, sui titoli di coda, i ricordi fumosi di una irripetibile golden age) che ebbero il loro culmine nella stranota Battle of the Bands, quella fra i Blur da una parte e gli Oasis dall’altra, con quest’ultimi che irruppero sulla scena direttamente dai sobborghi di Manchester. Senza manager al seguito, ma con la spavalderia feroce e insolente che solamente la periferia può conferirti. E con il medesimo clamore che una quindicina di anni prima avevano creato i Sex Pistols.

Il primo fragore della battaglia si sentì nel 1994, l’anno in cui i Blur sfondarono le classifiche con “Parklife” e i fratelli litigiosi di Manchester regalarono il loro folgorante esordio, “Definitely Maybe”. Ma il sigillo di ceralacca sulla storica rivalità venne simbolicamente apposto l’anno successivo quando entrambe le band scelsero il 14 agosto del 1995 per diffondere i singoli dei loro successivi album in imminente uscita. Una scelta di marketing pazzesca e fratricida, a beneficio di una stampa assetata di duelli e pettegolezzi, 30 anni dopo i Beatles e i Rolling Stones. Non vi riveliamo chi vinse quella battaglia né chi, successivamente, si aggiudicò la guerra degli album.

Anche perché si tratterebbe di un dettaglio, una nota a margine di un documentario che illustra quegli anni di cambiamento soffermandosi su due snodi cruciali, da considerare come gli spermatozoi che concepirono il Brit Pop.

Il primo fu il fenomeno acid house nato alla fine anni 80 che, a sua volta, incastonava una duplice rivoluzione: tanto per cominciare, i ragazzi cancellarono il concetto di club come punto di aggregazione, rendendo l’epicentro dello sballo una cattedrale itinerante con l’organizzazione dei Rave in posti ignoti fino all’ultimo minuto, lontano dagli statici luoghi deputati. Inoltre proprio nei Rave erano la folla e i Deejays le stelle della serata durante la quale veniva demolita la tradizionale separazione fra pubblico in platea e artista sul palcoscenico. Il controllo dell’intrattenimento aveva, dunque, cambiato padrone. Di nuovo i Pulp, sublimi cantori dandy della gente comune, gli Oscar Wilde del Brit Pop, descrissero questo scenario da ecstasy in una manciata di minuti con la splendida “Sorted for E’s & Wizz” (sempre dall’album “Different Class”).

Il secondo snodo cruciale si chiama Stone Roses, la band indie di Manchester. E’ nell’inchiostro della scena musicale di Manchester che affondò la penna con cui fu scritto l’ideale statuto del Brit Pop. In soli due dischi (specie il primo, omonimo, del 1989) trasversali e psichedelici, gli Stone Roses divennero i padri putativi del movimento, riportando gradualmente gli strumenti sul proscenio e il ‘clubbing’ nello stile di vita, creando un’onda e un fermento che nel documentario viene paragonato alla San Francisco degli anni 60, ma in versione proletaria.

Il resto è storia: partenza, decollo, atterraggio di un volo targato British Style (per i più feticisti del mondo anglosassone non mancano le immagini di Camden Town, Brick Lane, Knebworth, le Doctor Martens, i negozi di vinili, e altra memorabilia da immaginario). E sebbene il titolo sia dedicato alle due band simbolo del Brit Pop, a cui è sicuramente riservato il climax, il documentario crea connessioni, annoda i fili del tessuto sociale, non dimentica band fondamentali e popolarissime come gli Suede, né quelle secondarie come i Supergrass o gli Elastica. Fra semplici accenni (divertente l’aneddoto dei Blur in tour negli States proprio nell’estate dell’esplosione del grunge) e approfondimenti, frammenti di esibizioni live e parole ai protagonisti, manager inclusi. Fino all’epilogo, con il ghigno incapsulato di Tony Blair ad appropriarsi di quella che, con l’ingresso in pompa magna di stampa, mercato e politica, smise di essere una rivoluzione.

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L’ALGORITMO UMANO CONSIGLIA

Liam Gallagher – As It Was (Amazon)
Voto: 7

Il ritratto del frontman degli Oasis che ripercorre gli ultimi dieci anni della sua vita: dallo scioglimento della band in seguito al litigio con il fratello Noel in occasione di un concerto a Parigi, fino alla pubblicazione del primo album da solista “As You Were”. In mezzo il fallimento del progetto Beady Eye e una profonda crisi personale. Proprio il fratello Noel è il protagonista assente ma ingombrante di questo documentario che descrive la parabola di Liam, da sfacciata icona del Brit Pop ad artista cinquantenne (quasi) salutista, capace di riconquistare il suo pubblico, che evidentemente non lo aveva mai davvero abbandonato.

Liam, Noel e la cameretta alla periferia estrema di Manchester; Liam e il rapporto disinvolto con i figli adolescenti, nelle vesti del padre rockettaro che racconta ai ragazzi di concerti e canne. Lo vediamo in versione bravo ragazzo a casa della madre oppure fra i mixer della sala d’incisione a ricostruire il suo riscatto. Liam che invecchia bene dopo aver rischiato di invecchiare veramente male. Un documentario onesto, una piacevole seduta spiritica in cui fanno capolino i fantasmi buoni e cattivi dell’epoca Brit Pop. E un pugno di nuovi brani che restituiscono al mondo del pop/rock un protagonista fiero, problematico e incontentabile.

Un commento

  • William ha detto:

    Articolo che sintetizza in maniera sublime e affascinante un movimento, un’epoca e tanti ricordi …i Pulp, sublimi cantori dandy della gente comune, gli Oscar Wilde del Brit Pop…. 😉

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