UNA SITCOM PER CHI NON AMA LE SITCOM, O E’ DISPOSTO A IMPARARE AD ODIARLE: KEVIN CAN F*** HIMSELF E’ UN’ORIGINALISSIMA SERIE CHE PROPONE UNA COMEDY DESTRUTTURATA
Come nella gastronomia fighetta dei nostri tempi, anche la tv inizia a proporre ‘piatti’ destrutturati, e anche in questo campo la scelta può portare a risultati molto interessanti, perché guardare dentro l’ingranaggio creativo di un prodotto artistico è sempre fonte di curiosità.
Amazon Prime propone una delle serie tv più originali degli ultimi anni, sul versante comedy forse la più intrigante di sempre: Kevin Can F*** Himself, dove le stelline stanno per il più classico degli inviti ad andarsene a fare un giro, nella sua tipica versione volgare USA.
La serie si presenta come una sit-com, ma in realtà si tratta del suo esatto contrario, se una cosa del genere esistesse (e ho il sospetto che da ora esisterà).
Kevin Can F*** Himself è la cronaca della morte annunciata della sit-com, o meglio dello stereotipo ormai stantio della classica situation comedy multicamera show della serialità americana.
Ora, diciamo la verità, le sitcom le guardiamo tutti ogni tanto. Ma l’algoritmo umano non si sognerebbe di scegliere e consigliare una sitcom classica, come ce ne sono a decine nei palinsesti televisivi, a meno che non fosse una serie storica o leggendaria (Friends da una parte o il suo antagonista naturale Seinfeld), oppure in qualche modo innovativa (Modern Family, che ha realizzato il passaggio dalla multicamera alla camera fissa e ha eliminato le risate finte). Una sitcom ‘media’ insomma non la consiglieremmo, non è il nostro scopo: quelle sono cose che si guardano quando si ‘scarrella’ tra i canali o si bighellona sul menù delle piattaforme di streaming, e quello si fa durante uno scarrellamento, si sa, rimane nel chiuso della coscienza di ogni spettatore, il cui cuore ha ragioni e gusti che la mente razionale non conosce (e spesso non condivide).
Ma con Kevin che può anche fottersi siamo decisamente a un altro livello, e tenetevi pronti a sentirvi in colpa la prossima volta che indugerete a guardare una sitcom.
La serie si apre con una classica, troppo classica, classica in modo sospetto ambientazione: divano di casa al centro della scena, protagonista maschile sciatto e sovrappeso, amici semi-dementi, fotografia satura e scontatissima, risate preregistrate a guidare i momenti in cui ci si deve divertire. La scenografia ricorda da vicino un evergreen delle succitate serie ‘medie’, quel La vita secondo Jim in cui si è lentamente diluita la verve comica del Belushi (Jim, appunto) rimasto a fare l’attore su questa Terra. Entra in campo la moglie, con in braccio uno dei più emblematici oggetti di scena di cui sono disseminate le sitcom ‘familiari’ americane: il cesto dei panni di plastica bianca. Qualche smaliziato potrebbe già rendersi conto che la ridondanza di stereotipi è voluta, siamo già dalle parti della citazione che straborda in parodia. Classicamente, ancora, la moglie è bistrattata dal marito dall’ego ipertrofico ma la personalità annacquata, la cui stupidità è plateale e inspiegabilmente sopportata. Come già nell’eterno capolavoro che sono I Simpson, l’accentuata imbecillità di alcuni personaggi è già un rovesciamento parodistico, fa ridere in sé ma fa ridere perché critica quel tipo di comicità imbecille e troppo facile.
Ora il vostro spocchioso algoritmo vi prega di tenere duro ancora qualche minuto: infatti anche uno spettatore di bocca buona o in fase di scarrellamento forse non si intratterrebbe a guardare questo titolo dopo le prime mediocri battute così troppo tipiche. Aspettate almeno fino a che la moglie, una vera e propria Miss Sitcom, spinge la tipica porta basculante che conduce dal living alla cucina (si immagina suo regno). Quando Allison, sorridente e ironica, varca la soglia, ci troviamo in un altro mondo, un’altra sitcom, anzi, in un altro genere televisivo. Repentino, il cambiamento è piacevolmente spiazzante. I colori cambiano, il tono diventa freddo e opaco, le risate preregistrate tacciono, la bravissima protagonista cambia totalmente espressione, la musica diventa drammatica.
I problemi che nel living coloratissimo sono oggetto di risate, come la decisione del marito di festeggiare l’anniversario di matrimonio con una cosa che piace solo a lui, nella cupa cucina diventano insostenibili prepotenze, fonte di un dolore opprimente, simbolo di una prevaricazione dell’uomo sulla donna che non può portare a niente di buono.
Geniale, tecnicamente riuscitissimo, l’escamotage dei due diversi piani narrativi è il nerbo della serie, già dalla prima puntata, nell’arco dei primi 10 minuti di azione.
Quando è in scena Kevin/Eric Petersen siamo in una trita sitcom, quando lui non c’è, Allison/Annie Murphy è la protagonista di una serie drammatica, come si dice, a tinte dark.
Un salto nella metatelevisione, dunque, un intelligente modo prima di tutto per dare vita a un’arguta critica alla rappresentazione stereotipata dei ruoli maschile e femminile che, negli anni 20 di questo nuovo millennio, rischiano di diventare pericolosi. L’indulgenza con cui viene proposto nella comedy americana il maschio bianco (ma anche nero, vedi Tutto in famiglia) razzista, maschilista, incline al raggiro e alla truffa, pigro e assolutamente contrario alla collaborazione familiare non è più solo stucchevole: è diventata criminale. Di conseguenza il ruolo della moglie, della Marge infinitamente superiore al marito che però inspiegabilmente lo tollera e lo asseconda, risulta assurdo fino all’inaccettabile.
Così, la moglie di Kevin, la bella e intelligente Allison, quando scopre che non solo il marito è un emerito cretino che la sfrutta come una specie di ‘mamma con benefici’ (brr), ma l’ha anche ridotti sul lastrico, va in pezzi. E decide che è ora di finirla, e di liberarsi di lui (simboliche le scene in cui schiaccia le blatte sotto le scarpe, contemporaneamente con gusto e digusto).
Qui la serie ha il suo guizzo ulteriore: l’esercizio di stile della parodia lascia posto a una trama drammatica e thriller che non ha nulla da invidiare a quelle ‘vere’. Allison vuole uccidere Kevin per liberarsi di una vita che la sta a sua volta uccidendo come donna e essere umano autonomo, e si inoltra in un modo criminale a lei totalmente ignoto per cercare di realizzare il suo intento delittuoso senza essere poi incastrata.
Come, e qui la citazione di una delle più belle serie di sempre può sembrare un azzardo ma non lo è, in Breaking Bad, la protagonista si cala in un ambiente alieno diventandone un abile e straordinario abitante, incattivendosi per ‘buoni motivi’ e indurendo la sua corazza fino a diventare un inaspettato e credibilissimo villain.
Tutto questo, sempre entrando e uscendo dalla grottesca vita da Miss Sitcom, dando allo spettatore una sensazione di capogiro come su una giostra che all’inizio sembrava molto meno spaventosa.
Come Allison vuol uccidere Kevin, così questa serie vuole uccidere la sitcom tradizionale. Di quello che finirà per fare Allison non vi diciamo, ma per gli intenti della serie ecco lo spoiler: il delitto della sit-com è avvenuto. Il continuo passaggio dalla parte drammatica alla parte comica è un esercizio faticoso, e le gag della sitcom sono sempre più indigeste per lo spettatore, risultano sempre più insopportabilmente grottesche. Non si ride più, delle continue ‘cattive ingenuità’ di Kevin o dei tormentoni dati dal riconoscimento dei suoi innumerevoli vizi: è come se ogni scena ci ricordasse quanto è diventato sciatto lo stile di sceneggiatura di questo tipo di serie, come se ogni dialogo fosse un colpo sui chiodi della bara di un genere televisivo che, forse, ha fatto il suo tempo.
Dopo aver visto questa serie avrete difficoltà a guardare una sitcom con lo stesso occhio, e penserete anche voi che forse ormai Kevin può anche andare a farsi fottere.