CARO DIARIO (1993)
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Nel 1993 con “Caro diario”, in tre capitoli disgiunti ma associati da un’inflessibile idea di cinema, Nanni Moretti compone un tour autobiografico esemplare, la summa di un percorso intrapreso nel 1976 e indirizzato a osservare la realtà circostante e i suoi mutamenti attraverso il più diretto dei filtri: se stesso.
Il diario rimane aperto ancora oggi, ai tempi de “Il Sol dell’avvenire”: Moretti continua a scrivere e sfogliare pagine di cinema che aggiornano di volta in volta la cronaca di un lungo viaggio di (auto)analisi, scritte con la nitida calligrafia che registra un umorismo disincantato, non privo di autoironico narcisismo, e dove la punteggiatura viene fornita da un’abbondanza di siparietti surreali e lampi di sottile sarcasmo.
“Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Anche in una società più decente di questa, mi sa che mi troverò a mio agio e d’accordo sempre con una minoranza”.
C’è un’intera generazione tormentata dalla paura di incepparsi nei luoghi comuni dietro questa celeberrima frase estrapolata da “In vespa”, primo capitolo di “Caro diario”, in cui Moretti scivola su due ruote tra le lingue d’asfalto della Roma spopolata d’agosto. Il luogo comune, il mito preconfezionato, che può annidarsi nelle parole e nei comportamenti, è da sempre l’insidia, lo spettro nel buio di una generazione che ha paura di non adempiere al proprio manifesto, irrigidita dal terrore della propria incoerenza, còlta in flagranza di compromesso, ignara di aver già imboccato i sentieri della borghesia benestante e snob. Come l’amico intellettuale, nel secondo capitolo, “Isole”, che da 20 anni non guarda la televisione preferendo studiare l’Ulisse di Joyce, ma finisce per cedere alle lusinghe delle soap opera. O lo scrittore che si rintana nella solitudine ascetica e senza elettricità di Alicudi per espiare il successo.
“Voi gridavate cose orrende e Voi siete imbruttiti. Io gridavo cose giuste e ora sono uno splendido quarantenne”.
Con questa frase il Moretti personaggio/attore reagisce nei confronti dei coetanei che mascherano l’autogiustificazione dietro un finto piagnisteo immortalato in un banale film italiano da due camere e cucina. Con spietatezza li osserva, quei coetanei passivi, nel corso dei tre capitoli. Che siano totalmente asserviti all’egotismo dei figli, oppure isolani megalomani e inospitali, o ancora medici che non sanno ascoltare.
In “Caro diario”, senza più la mediazione di Michele Apicella che, con l’esclusione de “La messa è finita”, era stato il suo alter ego per cinque film – da “Io sono un autarchico” fino a “Palombella Rossa” – Nanni Moretti scende in campo in presa diretta con il proprio corpo, che diventa un corpo-cinema. Un corpo con la macchina da presa. In vespa nella capitale svuotata, in nave nel giro a tappe tra le isole Eolie e poi offrendosi ai luminari da scartoffie in “Medici”, il capitolo in cui Nanni racconta il calvario della sua malattia.
Con una drastica scelta anti drammaturgica, rinunciando ai codici della tradizionale intelaiatura narrativa, “Caro diario” ignora la costruzione di un climax e di una catarsi. Ne sia sfolgorante esempio il modo in cui, nella stessa inquadratura, in un pugno di battute, nel giro di pochi secondi, Nanni Moretti liquida il passaggio dall’iniziale diagnosi infausta e sbagliata, alla diagnosi corretta del linfoma di Hodgkin, in coda all’intimo racconto autobiografico di “Medici”.
“Caro diario, sono felice solo in mare, nel tragitto tra un’isola che ho appena lasciato e un’altra che devo ancora raggiungere”.
Essendo concettualmente la forma diario il centro di gravità permanente del Moretti cineasta, la sua soddisfazione di regista equivale all’idea di un cinema in costante transito, che procede per disquisizioni e piccoli movimenti, cercando il senso estetico nelle traiettorie che compie. Tra annotazioni e postille, il racconto cinematografico avanza per soste in cui si contempla, o per accelerazioni infinitesimali, in cui ci si muove per dissertazioni. L’uomo con la macchina da presa è un viandante che si colloca fra la peregrinazione senza meta dei personaggi della Nouvelle Vague e il cinema del pedinamento di Cesare Zavattini (dove l’oggetto del pedinamento è alla fine lo stesso Moretti: i suoi ragionamenti, le ispezioni, le micro indignazioni e nell’ultimo capitolo, il suo corpo malato).
Il pedinamento si compie per mezzo di un continuo sopralluogo durante il quale il cinema-diario assorbe dati, cose, oggetti. E nell’assorbirli li carica di significato, senza mai piegarli ai postulati dell’incedere filmico convenzionale.
Come scriveva Pier Paolo Pasolini (citazione estremamente sintetica di un discorso teorico molto più ampio, controverso e dibattuto ad oltranza dagli accademici): “il cinema si serve della realtà come materia linguistica, attingendo i suoi segni direttamente dal bacino inesauribile della natura. La relazione tra immagine cinematografica e la realtà arriva quasi all’identità, e il cinema coincide di fatto con la realtà”.
Nella lunga sequenza conclusiva di “In vespa”, Moretti segue un suo pensiero, un suo appunto mentale (“Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove hanno ammazzato Pasolini”) e sfila nel dedalo delle strade di Ostia fino a scorgere il monumento alla memoria di Pasolini, eretto nel posto in cui fu assassinato, nel degrado dell’Idroscalo, dietro una rete metallica, tra le erbacce indisciplinate di un campo di calcio abbandonato. Qui la dialettica tra immagine e realtà agisce per restituire fisicità a un evento e a un luogo sperduti chissà dove nell’immaginario collettivo. Non proprio un luogo e un evento dimenticato, ma abbandonato al deterioramento della memoria. La macchina da presa, che sembra operare per conto proprio, lo scova, lo inquadra e lo rende ‘segno’. Il dato oggettivo che, assorbito nella pellicola, diviene testimonianza e porzione di cinema, e quindi porzione di realtà.
Il cinema. Nei film di Nanni Moretti il cinema è un ricorrente e spesso scanzonato argomento di conversazione. In “Sogni d’oro” Michele Apicella è un giovane regista al lavoro sulla sceneggiatura di “La mamma di Freud”. Ne “Il sol dell’avvenire”, Moretti è impegnato nella messa in scena di una pellicola ambientata nel 1956: la storia del segretario di una sezione del partito comunista.
“D’estate a Roma i cinema sono tutti chiusi, oppure ci sono film come “Sesso amore e pastorizia”, “Desideri bestiali”, “Biancaneve e i sette negri”, oppure qualche film dell’orrore come “Henry”, oppure qualche film italiano”.
In “Caro diario” Moretti sogna di girare un musical su un pasticciere trozkista nell’Italia degli anni 50, considera – di nuovo un’annotazione da diario – l’opportunità di girare un film che descriva Roma esclusivamente attraverso le case. Solamente un sopralluogo. L’aspetto curioso è che il primo capitolo di “Caro diario” è a tutti gli effetti un cortometraggio su Roma, perlustrata da disinvolte carrellate, rapide come l’andatura di una Vespa; fuori dalla Città Eterna da cartolina e ben dentro l’istantanea di una capitale fatta di quartieri secondari, resa ancora più inedita dall’assenza degli abitanti.
Oppure Moretti, mentre scorrazza e lascia liberi i pensieri, ricorda di aver letto un soggetto, “Fuga da Spinaceto”, che parlava di un ragazzo che scappava da quel quartiere, scappava di casa e non tornava mai più. Il cinema è l’ennesima forma di annotazione, una digressione che gli permette di far avanzare il racconto, (allo stesso modo lo sono i ritagli di giornale di “Isole” e le ricette di “Medici”). Ed ecco Moretti che bastona il lessico farneticante dei critici, sfoga il suo risentimento cinefilo contro lo splatter di “Henry – Pioggia di sangue”, elogia “Flashdance” (“il film che mi ha cambiato definitivamente la vita”). Tutti sconfinamenti sul cinema, tra il serio e il faceto, che circoscrivono l’ennesima singolarità (anti) drammaturgica di “Caro diario”: una narrazione che attinge dal serbatoio di film inventati, ipotetici per fornire segni e spunti al film vero che Moretti sta mettendo in scena. Ricominciando sempre da capo, da un altro appunto mentale, da un’altra divagazione, da un altro incipit. Come in un (caro) diario.