L’ESORCISTA
(Sky, Now Tv)
Capitolo centrale di un trittico satanico iniziato nel 1968 con “Rosemary’s Baby” di Roman Polanski e chiuso nel 1976 con “Il presagio” di Richard Donner, “L’esorcista” può essere considerato, fra i tre, il più esplicito e il più ortodosso: il braccio violento dell’horror demoniaco, in cui la brutalità del diavolo diventa la ragion d’essere del film stesso.
La veemenza del Male scaturisce dalla rigorosa prospettiva cattolica dell’omonimo romanzo di partenza, scritto da William Peter Blatty – anche autore della sceneggiatura premiata con l’Oscar. Uno script su cui Friedkin, reduce dal pluripremiato “Il braccio violento della legge”, utilizza il suo talento registico per mostrare il nemico di Dio al massimo della sua spavalda malvagità e del suo marciume, senza le subdole cospirazioni presenti nel capolavoro di Polanski, e surclassando qualsiasi ipotesi legata a disturbi neurologici o fisime da psicanalisi. Il demonio esiste, è terrificante e può essere cacciato esclusivamente con un rito cattolico.
Friedkin filtra il film con una lente molto realistica, in cui la putredine del demonio, e il rituale dell’esorcismo che serve per scacciarlo, devono essere esibiti con piglio documentaristico, assegnando agli effetti speciali un ruolo prominente. Sia effetti speciali visivi che sonori, questi ultimi premiati dall’Academy Award.
Snobbato dal grande pubblico, il premio Oscar per i migliori effetti sonori cattura perlopiù l’attenzione delle maestranze, ma chi ha visto ‘l’horror più famoso di tutti i tempi’, specie nel buio di una sala, avrà compreso quanto il suono ne “L’esorcista’ possegga un’accentuata funzione narrativa. Ne sia d’esempio la sequenza in cui la piccola indemoniata Regan viene sottoposta agli esami clinici in ospedale, dove il rumore assordante dei macchinari contribuisce all’accumulo asfissiante di inquietudine, mistero e suspense.
Il demonio non è latente, non è una semplice percezione, né gioca a nascondino. È al contrario un’entità oggettiva, tangibile e appare in tutta la sua traboccante atrocità, violando il circuito fra mente e corpo, entrambi sottomessi agli attacchi di una forza superiore che aggredisce la psiche e mostra l’ineluttabile fragilità fisica dei mortali.
I timori ancestrali, i più spaventosi, continuano a brulicare sotto il tappeto della società. Sono ancora presenti, in letargo, anche nelle porzioni più benestanti e laiche come quella a cui appartiene la piccola Regan. Mettendo in scena l’emersione di una mostruosità non controllabile, liberata dal guinzaglio della razionalità, Friedkin e Blatty rendono lo spettatore testimone oculare del crollo di un dogma: crolla, di fatto, il rifiuto di assegnare al male un volto soprannaturale. Viene cancellata l’utopia di una società calda, liberale e accogliente, in cui tutto può essere spiegato con strumenti terreni e misurazioni scientifiche. Uno schema mentale abitudinario, sovvertito dall’irruzione inarrestabile di sporcizia, buio, freddo e disordine.
Definito come l’horror più terrificante di tutti i tempi, “L’esorcista” si pone come un’esperienza sensoriale totalizzante e implacabile. Una volta intrapresa, non lascia scampo, non c’è ritorno, perché si è come schiavizzati da uno sguardo che ha superato i confini rassicuranti della normale esperienza visiva per diventare un’odissea a capofitto nelle pulsioni più abiette. All’interno della storia del cinema, “L’esorcista” si è guadagnato un posto a se stante, alla stregua di un valore matematico. Un punto di riferimento estetico al quale si può solo aggiungere o dal quale si può solo sottrarre, trascendendo la dimensione filmica per approdare a quella di ‘segno’.