We Are Who We Are: in streaming su NowTv la serie prodotta da Sky-HBO e firmata da Luca Guadagnino

Abbandonate le vostre convinzioni, dimenticate quello che credete di sapere sul concetto di intrattenimento televisivo, e concedetevi un salto nell’altrove, con la visione della serie tv d’autore firmata da Luca Guadagnino.

La sfida

A quanti gli hanno chiesto se si rendeva conto di andare contro tutte le regole della produzione seriale televisiva, il regista e autore cinematografico Luca Guadagnino ha giustamente risposto che le regole non gli interessano nemmeno nel suo specifico, il cinema appunto, e che anzi il suo lavoro si basa su uno scardinamento e una destrutturazione delle regole. In realtà l’unica regola che la serie tv in otto episodi We Are Who We Are infrange è quella, non scritta da nessuna parte, che la tv deve rappresentare l’intrattenimento leggero e spensierato, che un prodotto televisivo seriale sia prima di tutto un diversivo superficiale e uno scacciapensieri.
Ecco, no, Guadagnino dirige e firma una serie che di superficiale non ha proprio niente, e la sfida che bisogna accettare prima di guardarla è quella dell’impegno. Seguire gli otto episodi di WAWWA (l’acronimo fa molto ‘international’) richiede, oggettivamente, uno sforzo: lo sforzo di collaborazione intellettuale per trovare il senso profondo di quello che si sta guardando, sforzo solitamente non richiesto da un programma televisivo. Ma ne sarà valsa la pena. Affrontate questo ‘impegno’: non è detto che la serie vi piacerà, ma vi sarà piaciuto l’impegno in sé, come succede quando, dopo un allenamento particolarmente duro, avete la sensazione di essere già più in forma di prima.

La storia

Con We Are Who We Are Luca Guadagnino torna a raccontare una storia di formazione, come nel suo celebrato e premiato Chiamami col tuo nome, film del 2017 con Timothée Chalamet e vincitore di un Oscar (a James Ivory, per la sceneggiatura).
Anche qui, come lì, il regista esplora per suggestioni visive il momento in cui, nell’adolescenza, un individuo cerca di definire la propria identità, certamente sessuale ma anche più genericamente esistenziale.
I protagonisti della serie sono due ragazzi di sedici anni che vivono in un’immaginaria (ma plausibile) base dell’Esercito Americano in Italia, vicino a Chioggia. Uno è Fraiser (Jack Dylan Grazer) figlio della nuova comandante della base, il Colonnello Sarah Wilson (Chloe Sevigny), sposata con un’infermiera militare, con la quale forma una famiglia aperta e sensibile ma totalmente disfunzionale, l’altra è Caitlin (bellissima e particolarmente intensa Jordan Kristine Seamòn), figlia di un ufficiale afroamericano, veterano della base, e di una donna africana già madre di un altro figlio.
Fraiser è il doppio speculare dell’Elio Pearlman di Chiamami col tuo nome, identico  nell’indecisione, nell’introversa timidezza e nella sensibilità nevosa e ulcerata, ma opposto per l’incapacità di farsi amare e di conquistarsi il suo spazio coi talenti e il carisma: nell’insieme un adolescente pieno di tic e nevrosi, destinato a stare ai margini ovunque, incompreso sempre. Soprattutto è disagio con l’identità di genere che la natura gli ha dato, è attratto dagli uomini ma non ha coraggio di sbilanciarsi mai, è strano, e non appena la conosce, si sente capito, accettato e anche sedotto da Caitlin, che esattamente come lui non sa cosa vuole: ha un fidanzato che però lascia, si invaghisce di una ragazza ma quando la bacia non è convinta, si taglia tutti i capelli per negare la sua identità femminile facendo infuriare il padre conservatore e maschilista, si appiccica ridicoli baffi finti sulla splendida pelle ambrata. I due insieme intraprendono un percorso dove niente è scontato, soprattutto la meta finale.
Ma confusione e ricerca sono le direttrici lungo cui si muovono anche gli altri personaggi, giovani e giovanissimi, che circondano Caitlin e Fraiser. Compagni, amici, ragazzi italiani che vivono in zona, alcuni soldati decisamente non pronti a partire per posti dove la vita e la guerra sono fin troppo reali. Tutti sono alla ricerca della propria identità, sono soprattutto alla ricerca di un’appartenenza. L’appartenenza a un genere sessuale, a un luogo (vivere in una base militare è stare in un altrove senza le radici, che legano ma anche rassicurano), a un valore, a una religione. Si girano intorno, i ragazzi, cercando l’amore, la comprensione, le radici, le ali per volare. Uno chiede a un altro “Tu a cosa senti di appartenere?” e l’altro “Io? Ma io sono un soldato, amico”.

E questo tipo di dialogo aperto, irrisolto, da ‘completare a piacere’ è la caratteristica, il bello, e il limite di un prodotto come questo: le serie tv tendono a spiegare ogni cosa, a ‘far quadrare’ l’insieme, mentre WAWWA no, lascia aperta ogni considerazione all’interpretazione di chi sta guardando. E qui entra in gioco lo sforzo che si diceva. E’ lo spettatore che deve decidere: quello che avrà capito sarà la cosa giusta, perché l’autore non dà la risposta, pone solo le domande.
Il titolo di questa serie forse dovrebbe essere Who are we?, perché il percorso che fa la storia è interrogativo, è lo snodarsi della domanda più tipica dell’adolescenza, chi sono io, veramente? Ho diritto di deciderlo, questo, e non lasciarmelo imporre?

La critica

Guardare una serie come questa, così dichiaratamente ‘difficile’, è un’esperienza diversa dalla solita che abbiamo con la televisione. Bisogna essere disposti a superare alcuni pregiudizi, dovuti alla non-abitudine a certi meccanismi di visione più complessi. Allora le critiche che affiorano, che sono state fatte e che potremmo fare anche noi, possono essere ribaltate, e diventare i punti di forza.

Non ha trama. E’ parzialmente vero: succedono poche cose. Ma la scelta di Guadagnino è quella di privilegiare lo ‘sguardo’ rispetto all’azione. Immergendosi nelle lunghissime sequenze in cui apparentemente non succede nulla, lo spettatore ha tempo di porsi le domande giuste, sostando nelle infinite indecisioni dei personaggi, e arrivare a capire che, forse, i giovani protagonisti stanno cercando una definizione che in realtà non vogliono. Negli indugi dell’azione vera e propria sta riposto il significato di quello che accade dentro i personaggi, e allora si può comprendere che forse nel nostro tempo è possibile per ognuno proprio scegliere l’indeterminatezza, decidere di fissarsi in un essere ‘fluidi’ che, se per la società ancora non è accettabile, lo è per le leggi del cuore che oggi come sempre sono le uniche valide per un ragazzo di sedici anni. (sui social è nato l’hastag #wawwa, usato dai più giovani per affermare l’amore per sé stessi e reclamare il diritto alla propria sete di vita)

E’ lento. Rivendicando che dal punto di vista semantico ‘lento’ non ha un’accezione necessariamente negativa, ribadiamo che sì, We Are Wo We Are è lento. Nell’epoca della frenesia, di cui tutti ci lamentiamo, l’indugiare sulle immagini e il prendersi tempo per ricamare su uno stato d’animo, un’inquadratura, un particolare dovrebbe essere un valore. Intere scene ripetono addirittura la stessa azione, vista da punti di vista diversi, che ne scandagliano tutti i possibili significati reconditi, se pure ne hanno. Ci sono alcune scene di potenza quasi pittorica, caravaggesca, come la rissa a Chioggia tra italiani e soldati americani dopo il tiro alla fune, o i giochi d’acqua dopo pranzo tra i ragazzi al casale, che addirittura propongono un prolungato ralenty, indugiando sulle immagini, sulla musica, sulla costruzione di un’atmosfera che deve fissarsi, appunto, nella memoria visiva di chi guarda.

E’ pretenzioso. Pretende, sì, di imporre uno sguardo e di lasciare poi a chi guarda la fatica di decidere cosa significhi quello che ha visto. Il regista in un’intervista ha ‘osato’ paragonarsi a un gigante del cinema, per spiegare come senza questa ‘pretesa’ di avere lo sguardo di artista, non si dia arte: “se penso a Rossellini, a ciò che ha fatto e a come ha lavorato, quasi mi imbarazza sapere che esiste un modo di fare cinema seguendo le regole”. Questa serie non è pensata per dare al pubblico un prodotto riconoscibile, ma un prodotto artistico soggettivo che si assume la responsabilità dei propri gusti.

E’ difficile. Lo è nel senso che stimola una ricerca, un impegno che ognuno di noi è in grado di dare, se lo vuole.

Noi consigliamo di farlo, questo sforzo, per una sferzata di energia intellettuale che ci risvegli dall’astenia da divano che ci attanaglia tutti. Fosse anche solo per dire ma che dice sto tizio?, secondo noi vale la pena.

 

 

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