Baby Yoda, il fascino intergalattico del pupazzetto

Ha 50 anni e fa impazzire tutti. No, non è Brad Pitt. E’ il ‘Bambino’, un adorabile esserino verde dai grandi occhi neri e dalle orecchie pelose, che muove i fili della trama della serie di fantascienza The Mandalorian e che la furia commerciale Disney ha trasformato in un gadget irresistibile che spopola tra i fan del mondo di Star Wars. Somigliante nell’aspetto a un piccolo Yoda (personaggio arcinoto della saga di George Lucas), non si sa a che razza appartenga, per quale motivo sia tanto ricercato in tutta la Galassia, quale sia la sua origine e la portata del suo potere nella Forza. Queste caratteristiche confermano che una delle chiavi del fascino, sempre, rimane il mistero. Come quello sul perché una creatura goffa, senza nome e che non dice una parola sia diventata una star mondiale. Anzi, galattica.

 

Ricky Gervais, un bisturi contro gli Yankees

Con il suo monologo di apertura alla cerimonia dei Golden Globe, a gennaio 2020, ha fatto l’autopsia a uno star system impomatato. Il suo eccelso accento inglese, affilato dall’arrotino dell’irriverenza, ha trinciato gli yankees a casa loro, sul lussuoso tavolo operatorio del Beverly Hilton Hotel, portandosi via lo scalpo dei colossi dell’intrattenimento e la corona di Re della serata. Senza fare prigionieri: perché così vuole la pratica del ‘Roasting’, uno stile di comicità che offende, imbarazza e mette alla berlina.  In Italia, a tal proposito, siamo secoli indietro. Nel Roasting non esistono argini e la scurrilità può essere classe. Tutto è contestualizzabile, purché faccia male (tanto) e faccia ridere (e fa ridere perché fa male). Ricky Gervais è uno dei più illuminati stand-up comedian in circolazione e la stand-up comedy è attualmente l’unica bottega in cui si lavora per tracciare le coordinate di un mondo scivoloso che ci sta sfuggendo di mano e che si nasconde dietro patetici hashtag di solidarietà. “Se L’Isis creasse un servizio di streaming voi contattereste il vostro agente per ottenere un contratto”.
God Save Ricky.

 

Zero Calcare, la grandiosa lezione della cultura pop

Star televisiva in senso lato, ospite più o meno fisso di “Propaganda Live” su Rai 3, dove lancia i suoi cortometraggi animati fulminanti, Zero Calcare meriterebbe il Pulitzer (magari ex aequo con i geni di Lercio) per come ha saputo, quest’anno, dare ordine alla nostra confusione durante il Lockdown. Un artista del fumetto che in 4 minuti, utilizzando l’inarrivabile ironia feroce del romano e del dialetto romanesco, spiega in tempo reale (e diventando virale sul web) cosa sta succedendo nel nostro paese e cosa c’è nelle nostre teste. I dubbi, i quesiti, lo stupore, e anche la paura. Superando per distacco gli articoli di giornale e i servizi televisivi, così irrigiditi nelle loro “5W”. Non tutti per carità, ma in confronto a ciò che il giornalismo è stato, magari incolpevolmente, nel 2020, Zero Calcare è un rabdomante che trova l’acqua sotto le pietre di un pianeta desertico. Rapido, iperbolico, efficace, esaustivo. Cultura pop che fa informazione di altissimo livello. Che arriva al punto. Comunica, intrattiene e ti fa sentire meno solo e meno paranoico.

 

Il Var, Il calcio del futuro postmortem

Il nostro primo pensiero va all’indimenticato Aldo Biscardi, il proto-condottiero della Moviola in campo, che non ha mai potuto assistere all’avverarsi del suo sogno. Il secondo, agli inventori del Tombolino, l’ultima frontiera del premio di consolazione, i paladini del brivido sempre e comunque. Pure dopo morti. Il Var ha rivoluzionato il calcio e consegnato le chiavi dello spogliatoio alla televisione. Stadio senza tifosi, dunque, inchiodati sul divano per decreto legge, e potere assoluto agli schermi: quello delle pay, naturalmente, che offrono lo spettacolo preferito ai carcerati del lockdown. A seguire lo schermo del del Var che ha facoltà di annullare un gol, assegnare un rigore, certificare un fuorigioco supermillimetrico. Decide l’arbitro, sì, ma su ordine di una macchina.  Il Var è una specie di minipartita che si gioca dentro la  partita vera, ma che paradossalmente avviene fuori dal campo, a palla ferma, post-mortem.  L’apprensione è comunque la stessa. Il tombolino del tifo. Nel Nuovo Testamento del calcio il Var è il Santo Sepolcro che si solleva e ci mostra se la nostra squadra è morta o è risorta.

 

L’invenzione di Bugo (da parte di Morgan)

Cristian Bugatti fino al febbraio dell’anno scorso era conosciuto, col nome d’arte di Bugo, solo da qualche intenditore di musica underground e di cantautorato indie. Poi il cantante ha deciso di partecipare al Festival di Sanremo insieme a quella vecchia volpe sconsiderata di Morgan e lì, sul palco televisivo più importante d’Italia, ha vissuto il più sgangherato battesimo di sempre:  mentre il suo permaloso e più famoso compare stravolgeva la loro comune canzone ricoprendolo di insulti, Bugo abbandonava l’Ariston interrompendo l’esibizione, guadagnando una squalifica ma anche visibilità e (im)peritura fama. La scena in cui il cantautore sconosciuto se ne va dal palco come il compagno delle medie dalla festa in cui tutti lo prendono in giro è una delle più ri-viste dell’anno, e noi siamo tentati di dare ragione a Morgan quando dice che è grazie a lui che ora ‘Bugo è un Bugo che c’è.

 

 Televisivo a chi? La gioiosa contraddizione di Manuel Agnelli

Un inno all’incoerenza che, paradosso per paradosso, corrisponde a un’anima ribelle anche alla classica ribellione: dopo aver fatto televisione come giudice di X Factor parlando male della musica in tv, dopo aver lasciato la televisione per averne avuto abbastanza, ecco il rocker leader degli Afterhours che dopo una pausa nel 2020 torna sul piccolo schermo, dichiarando candidamente di avere ancora qualcosa da dire. E la televisione, candidamente, se la beve e lo stra-premia, facendone una specie di superstar del mondo telegenico in questo scorcio finale di anno pandemico. Manuel cinico, preparatissimo, carismatico, cattivo e tenero, anima rock e cuor di ballata, a X Factor si è preso la scena sia al tavolo dei giudici sia addirittura sul palco, quando con la sua esibizione ha fatto impallidire e poi scomparire i suoi pupilli. Facendo sperare in un ri-bis.

 

Helena Bonham Carter, and God Save the Princess

Lucy, Helen, Elizabeth, Olivia, Marla, Ari, Bellatrix, Elizabeth, Eudora: in tutti i personaggi che ha interpretato c’era un po’ di Helena Bonham Carter. La musa di James Ivory prima e di Tim Burton poi (anche moglie, per un bel pezzo) ha insufflato parte della sua anima anticonformista e originale in tutte le donne che ha portato sullo schermo,  oltre ad aver donato loro la sua bellezza intensa, spettinata e brevilinea (che tra l’altro  è stata la riscossa per molte donne che calcano i pavimenti della realtà). E queste stesse caratteristiche personali dell’attrice hanno reso eccezionale anche la principessa Margaret in The Crown, la serie dell’anno: ribelle, sensibile, intelligente, sarcastica, fragile, selvaggiamente onesta nel mondo artefatto della corte inglese, la sorella della regina Elisabetta, l’eterna seconda, grazie all’interpretazione perfettamente empatica di Helena Bonham Carter è diventata il personaggio preferito della serie per i fan di tutto il mondo. Scavalcando, per una volta, la primogenita detentrice della corona e del trono.

 

Giuseppe Conte, la star in giacca e decreto

Giuseppe Conte secondo noi è il personaggio televisivo dell’anno. Da quando il mondo è stato travolto dalla pandemia di COVID-19, quello in tv col premier è diventato per gli Italiani un appuntamento quotidiano, atteso, irrinunciabile e, lo ammetteranno anche i detrattori del personaggio, vagamente confortante. Conte che commenta i dati, Conte che chiede di rispettare le regole, Conte che cerca di rassicurare, Conte che commenta l’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, cioè, in ultima analisi, Conte che commenta sé stesso;  con quella voce un po’ roca e quell’eloquio involuto da avvocato del sud, il nostro presidente del Consiglio è sempre apparso elegante, pettinato, e soprattutto con un’espressione severa ma mai, mai disperata o arresa. Finzione, recitazione, scarsa espressività? Non lo sappiamo, e non importa, Conte in tv ci sta benissimo, è facile imitarlo e i vestiti gli cadono addosso manco fosse un Obama delle Puglie. E, più di tutto, esprimeva un fatto che accomunava tutto il mondo: non sapeva assolutamente cosa fare. Ma lui (non) lo ha fatto con grande, impagabile stile.

 

 

 

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