SU DISNEY + LE FATE IGNORANTI, LA SERIE CHE FERZAN OZPETEK HA SCRITTO E IN PARTE DIRETTO ISPIRANDOSI AL PROPRIO FILM DEL 2001: OTTO EPISODI CHE FORSE INIZIANO UN IDILLIO TRA IL REGISTA TURCO E LA TELEVISIONE
E se in tv Ferzan Ozpetek avesse trovato la forma perfetta per lui, per la sua poetica?
Il regista turco trapiantato (con successo) in Italia, autore di Le fate ignoranti, Saturno contro, Mine vaganti, Rosso Istanbul, La finestra di fronte ha stuoli di ammiratori nel nostro paese, ma anche schiere di detrattori. I primi amano e i secondi gli rimproverano la tendenza a riproporre sempre lo stesso ‘mondo’, a creare un’atmosfera (che i critici definiscono artificiosa) di colorato sincretismo di genere e razza, che dà vita a nuclei irreali di persone ‘diverse’ che insieme si sottraggono ai problemi che la loro diversità creerebbe nella società reale.
Le tavolate di Ozpetek, le terrazze di via Ostiense a Roma, il popolo LGBTQ++ che canta, balla, beve e soprattutto ama sono la cifra di questo autore, che può provocare simpatia o suscitare fastidio per la leggerezza con cui la complessità di quel mondo viene rappresentata.
Ebbene, questa leggerezza, lo sciogliere i nodi con la musica, la cucina, i baci e le sentenze liberatorie, il concludere un dramma con un sorriso pacificatore e una veduta aerea della città che va ad addormentarsi nel sole, per la forma serie tv è perfetta. Ogni episodio ha bisogno della sua conclusione temporanea, e al tempo stesso di rilanciare un tema che agganci alla prossima.
E questo è abilmente realizzato negli otto episodi di Le fate ignoranti, ognuno dei quali racconta una breve storia che inizia e si compie, e prosegue la Storia principale attirando lo spettatore verso lo scioglimento finale, procrastinato sempre e sempre più intrigante.
LA STORIA, LE STORIE
Come nel film, la storia è quella di Michele (Eduardo Scarpetta, convincente soprattutto nel suo essere carismatico accentratore di vicende e destini altrui), giovane pittore gay che inizia un’appassionata storia d’amore con Massimo (Luca Argentero, la cui interpretazione sembra risolversi tutta nel suo oggettivamente travolgente sorriso), fino ad allora etero e con tanto di deliziosa moglie algido-borghese, Antonia (Cristiana Capotondi: lasciando perdere l’improbabile confronto con l’interprete del film Margherita Buy, possiamo però dire che il suo etereo spaesamento di fronte a un mondo per lei incomprensibile è credibile e coinvolgente).
Quando Massimo muore improvvisamente, Antonia scopre che aveva un’amante, anzi un amante, e soprattutto che il marito si era immerso in un mondo totalmente alternativo a quello placido e conformista in cui viveva insieme a lei.
Come nel film, anche nella serie il punto focale della storia è questo avvicinarsi di Antonia e Michele, per elaborare il lutto inaspettatamente insieme, ma anche la reciproca scoperta dei due mondi così diversi tra loro: la fredda dottoressa Antonia è dapprima sconcertata e via via conquistata dalla brigata allegra e pettegola degli amici di Michele, che spaziano tra coppie gay, persone transgender, lesbiche, fruttivendole allupate in cerca di matrimoni felici, profughe turche coi capelli azzurri e il cuore spazioso.
Cioè la ‘famiglia’ di Michele, che è la famiglia/cast/luogo ideale proprio di Ferzan Ozpetek, che spesso ricorda come le tavolate durante le quali si discutono problemi e si risolvono situazioni sono quelle che vive lui stesso e la sua compagnia di amici e colleghi, spesso sovrapposti nei due ruoli (da cui l’accusa di autoreferenzialità da parte dei critici, e la lode per l’autenticità da parte degli apprezzatori). Sono proprio questi personaggi che danno valore alla dimensione televisiva della narrazione, rispetto a quella filmica: si amplia lo spazio per le storie di tutti, e mentre Michele e Antonia si avvicinano allontanano in un balletto un po’ sfiancante, alle persone intorno a loro succedono cose, che catturano di più l’attenzione dello spettatore.
La coppia gay deciderà per l’unione civile o finiranno per separarsi? Vera, la donna trans, troverà coraggio di affrontare sua madre che ancora si strugge per il suo piccolo Marcello? La psicologa e l’astrologa riusciranno a far quadrare la coppia aperta, o il tutto deflagrerà come in una ‘comune’ relazione eterosessuale? La madre di Antonia (Carla Signoris al suo ruolo forse più incisivo, portatore di un’autoironia vivida e priva di vittimismo) potrà insegnare a sua figlia le delizie dell’anticonformismo in un interno borghese?
Ogni episodio è dedicato a una storia, che procede parallela alla trama orizzontale di Antonia e Michele, e lo spettatore rimane avvinto dalla curiosità molto sapientemente seminata dallo sceneggiatore nell’arco della puntata. Tutto questo è immerso e avvolto dallo stile Ozpetek: dialoghi semplici ma pieni di sentenze memorabili (nell’accezione di ‘perfette per le citazioni da social’), interni da urlo che ti viene da segnarti ogni dettaglio per la prossima fiera del design, esterni morbidi e lucenti in cui la città di Roma appare bella sempre e comunque, dalle periferie ‘riqualificate’ al centro storico, spesso in veduta aerea che -magicamente- riesce a valorizzare anche lo sgangherato traffico cittadino.
Tutto questo fino al penultimo episodio. Nell’ultimo infatti Antonia decide di partire con il nipote di Serra e con un piccolo segreto, per passare del tempo a Istanbul, da cui era scappata anni prima e nessuno sa perché Serra stessa (Serra Yilmaz, unica interprete rimasta dal film originale, e vediamo subito che senza non si poteva fare), l’amministratrice del condominio e grande centro emotivo di tutta la banda.
ISTANBUL, ULTIMO EPISODIO
Per l’ultimo episodio Ferzan Ozpetek decide prendere le redini della regia, si trasferisce nella sua città natale, e fa balenare agli occhi dello spettatore LA storia che deve ancora raccontare, IL film del cuore che sta aspettando di essere girato, quello che completerebbe il suo percorso iniziato con Il Bagno turco, Harem Suare, Rosso Istanbul, ambientati nella capitale turca. Cioè Istanbul, la casa del regista, dove c’è la radice; le contraddizioni, il male, la spinta a scappare altrove, e anche se l’altrove (Roma) diventa casa e amore, i conti con quella radice aspettano, e per il ragazzo turco che ha imparato ad amare l’Italia, sono ancora da fare.
L’episodio finale di Le Fate ignoranti è il film dell’animo che l’autore Ozpetek ha bisogno di fare, e l’intensità quasi dolorosa della storia di Serra, che incontra il suo passato misconosciuto e scopre che la grande delusione della sua vita non era tale, spinge in un angolo la storia che abbiamo seguito finora.
Quando Serra torna da Antonia e Michele a fine episodio, questi due personaggi appaiono sbiaditi, piccoli, tutto sommato insignificanti con la loro relazione che forse sboccerà o forse no, ma comunque sarà orfana della dimensione tragica che ha campeggiato nella puntata sinora.
Una dimensione drammatica nettissima nei dialoghi sottotitolati, in cui la lingua turca avvolge lo spettatore italiano come nella melodia di un incantatore di serpenti, e nella bellezza anch’essa incomprensibile della città di Istanbul, una delle poche al mondo così ambigua, così duplice nel rappresentare est e ovest, dioniso e apollo, ombra e luce.
Splendido film a sé, l’ottavo episodio rende anche giustizia all’attrice Serra Yilmaz, di cui finora e per anni abbiamo visto solo il registro brillante e un po’ macchiettistico della folkloristica straniera di antica saggezza ottomana: finalmente sembra di capire perché Ozpetek l’abbia voluta sempre presente in tutti i suoi film, custodendo il suo potenziale carismatico e drammatico senza averlo mai liberato davvero, fino a questo momento, che restituisce un’interprete a tratti quasi sublime.
Questo episodio finale dunque ha una valutazione ambigua: pur essendo il più bello, con la sua qualità in certo modo appanna quella delle altre, che rimangono parte di una commedia molto ben rappresentata sui temi di amore e morte, rinascita e speranza attraverso il culto del cuore e della libertà di amare chi si vuole.
In ogni modo, l’algoritmo suggerisce di lasciarsi ammaliare da questa serie d’autore, lasciando da parte i confronti con il film, immergendosi senza pregiudizi nel mondo di Ozpetek, gioioso ed eccessivo, stilisticamente quasi fumettistico ma sincero, amabile e piacevole, come i quadri del protagonista che rappresentano i fondali di scena all’opera, da cui ci facciamo affascinare anche se in ogni momento sappiamo bene che sono di cartapesta.