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voto 10
Si entra nella vita e nella testa di una londinese ‘thirty-something’. Fleabag è il nome della serie, premiata con 2 Golden Globe e 6 Emmy Award, che il Newyorker ha definito “An Original Bad-Girl Comedy”. Fleabag è implicitamente anche la protagonista (sebbene il suo vero nome non venga mai rivelato). Una ragazza single ostinatamente indipendente eppure alla ricerca di punti fermi, ma che non lo siano troppo. Disinibita, sboccata, sarcastica, Fleabag – nella prima stagione – annaspa nel tentativo di elaborare il lutto per la morte della sua migliore amica, di cui si sente responsabile, e nel frattempo vive costantemente l’incubo di non essere più ‘fuckable’. Nella seconda stagione alza il tiro e si infatua di un sacerdote con cui vuole unirsi in senso biblico e lo contende a Dio, mentre intorno a lei ruotano amanti infantili ed egocentrici, matrigne perfide, padri in eterna crisi di terza età e sorelle infelicemente coniugate.
Phoebe Waller Bridge, che questa serie la scrive e la interpreta (a partire da un suo acclamato monologo teatrale), riesce con precisione millimetrica a sondare e fermare i pensieri di una donna che non insegue il sogno normalizzante del principe azzurro o del successo professionale. Sono passati 20 anni dalla “Bridget Jones” maldestra Cenerentola e dalle quattro amiche glamorous di “Sex & the City”. E la più proletaria Bridge traccia una netta linea di demarcazione.
Ha altro per la testa, Fleabag: deve mettere ordine al caos interiore, fare pace coi sensi di colpa, diminuire il numero di goffaggini e scelte sbagliate con cui si mette puntualmente nei casini. Fortunatamente possiede un’ironia sfacciata e chirurgica con cui arginare le conseguenze delle cazzate che fa o che subisce. E lo fa insieme a noi, spettatori attivi della sua piccola odissea metropolitana; privilegiati interlocutori con un biglietto d’invito siglato dall’abbattimento della quarta parete. La Bridge reagisce alle circostanze paradossali guardando in macchina e stemperandole nel commento sardonico e in una smorfia beffarda, rivolgendosi pertanto ai suoi unici veri amici. Che siamo noi. Solamente il sacerdote della seconda stagione (chiamato semplicemente “The Hot Priest”) sarà in grado di superare le difese di Fleabag. La super vulcanica londinese non potrà che gettarsi a capofitto nelle fauci di un amore impossibile.
Bridge è una direttrice d’orchestra perfetta: non c’è una scena o un dialogo fuori posto (entrando nello specifico, la prima puntata della seconda stagione è – per regia, interpretazione e sceneggiatura – un capolavoro). Il suo umorismo lega commedia e dramma, individuando i filtri obsoleti della fiction per abbatterli in tempo reale. Ragiona ad alta voce sul sesso in maniera spudorata, si masturba guardando un comizio di Barak Obama mentre il suo fidanzato dorme al suo fianco, ama farsi beffe del femminismo reazionario (“Sarei ancora una femminista se avessi le tette più grosse?”) e dei postulati del machismo. Fleabag è meravigliosamente sexy perché è anarchica e spontanea. Spalanca con stupore i suoi occhi castani su un mondo amico/nemico e interagisce con gli imprevisti, dando finalmente voce a quelle ficcanti postille a margine che la nostra mente solitamente trattiene nel pudico rispetto di regole invisibili, che con Fleabag si fanno più precarie. Se vi sintonizzate sulla sua lunghezza d’onda, riderete come matti e, soprattutto, apprezzerete ancora di più i due finali di stagione che straziano le viscere, ma che in fondo vi lasceranno molto più liberi e fieri di esservi sintonizzati proprio lì.
L’ALGORITMO UMANO CONSIGLIA:
CRASHING (Netflix)
Il gioiellino firmato da Phoebe Waller Bridge sulle avventure di un gruppo di coinquilini che condividono un ospedale fatiscente a Londra. Un’unica stagione che già mostrava il grande talento dell’autrice di “Fleabag”.