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Voto 10

A metà degli anni 90 il prolifico e da sempre divisivo Lars von Trier decise di far tremare regole e routine del mondo del cinema e della televisione. Nel 1995, insieme all’amico e co-firmatario Thomas Vinterberg, consegnò le sue tavole dei comandamenti estetici chiamandoli ‘Dogma 95’: un decalogo di indicazioni con cui lui e i suoi seguaci promettevano di rivoluzionare il modo di concepire e girare i film, snobbando tecnologie elaborate ed effetti speciali a favore di un nuovo artigianato che contrastasse la tendenza del cinema dell’epoca. Un vero movimento programmatico a cui aderirono negli anni successivi vari autori e che prevedeva – nei suoi punti chiave –  l’utilizzo spiccato della macchina da presa a mano, il divieto dell’alienazione spazio temporale (ogni film deve raccontare il ‘qui e ora’), il divieto dell’aggiunta del suono in post-produzione e il rifiuto di luci e filtri ottici speciali. E una serie di altre regole concernenti la grammatica cinematografica che potete trovare comodamente su Google.

Ma già un anno prima, nel 1994, Von Trier diede una spallata alla corazzata televisiva con le quattro ore incendiarie di “The Kingdom – Il Regno”, planando come un alieno su un territorio abitato dalle rassicuranti corsie ospedaliere di “E.R” e dai boschi pieni di querce e segreti di “Twin Peaks”. Con riverenza e trasgressione per entrambi, Von Trier ideò questo medical-drama virandolo verso due estremi: l’horror soprannaturale e la parodia surreale. Un ribaltamento dei cliché oltre la frontiera che aveva come epicentro un ospedale di Copenaghen edificato su fondamenta maledette e nei cui reparti oppressi da un’atmosfera viziosa e insalubre si aggiravano fantasmi di bambine morte quasi cent’anni prima, primari colpevoli di errori indicibili compiuti in sala operatoria, medici che si trapiantavano nel corpo organi aggrediti dal cancro, altri che riciclavano farmaci per realizzare stupefacenti.

Nella maligna caverna senza anestesia di The Kingdom spuntano logge segrete, si compiono rituali macabri, fanno capolino teste mozzate e il confortante rapporto fra staff ospedaliero e pazienti assume connotazioni disturbanti. La tendenza alla soap opera del tipico medical-drama con le sue appendici romantiche o moraleggianti precipita in quel luogo instabile e occulto che si colloca fra il razionale e il fantastico, fra la diagnosi oggettiva e la spiegazione paranormale.

Inquadrature oblique e indisponenti scandiscono questo racconto che assomiglia a un viaggio lungo le acque di un fiume infernale e paludoso, con una ferocia visionaria che ancora oggi, in un’epoca in cui le serie tv tendono a standardizzarsi rilasciando vibrazioni prevedibili, mandano un monito estetico e narrativo. Il messaggio nella bottiglia scritto da Von Trier nel 1994 – e ricalcato nella seconda serie datata 1997 – galleggia di nuovo sulle sponde della televisione attuale. In attesa della terza stagione che sarà disponibile dal 2022 e con cui il regista danese metterà il timbro definitivo sul referto del Regno.

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