ITALIA 1982 – UNA STORIA AZZURRA

(Sky, Now, Google Play)

 

Il bello delle favole

C’era una volta: l’esultanza di Marco Tardelli dopo il gol nella finalissima dell’11 luglio, la voce di Nando Martellini che intona per tre volte ‘Campioni del mondo’, la tripletta di Pablito contro il Brasile, Dino Zoff che alza la coppa, la partita a carte dei giocatori con Sandro Pertini sul volo di ritorno da Madrid.

Ogni favola ha i suoi protagonisti, il cast da mettere in locandina e i momenti imprescindibili: gli organi vitali del racconto.

Poi ci sono gli echi interni al racconto stesso: i nervi, le connessioni secondarie, quei pezzetti di brace che possono far divampare conversazioni torrenziali in cui è vero tutto e il contrario di tutto.

I dettagli, insomma: Claudio Gentile e la marcatura asfissiante ‘a uomo’ su Zico e Maradona (e se avessimo giocato a zona?), la convocazione di Paolo Rossi, reduce dalla squalifica per il calcioscommesse (e se al suo posto ci fosse stato Roberto Pruzzo, capocannoniere del campionato di Serie A per la seconda volta consecutiva?). E poi Dino Zoff che con i suoi guantoni blocca sulla linea di porta il colpo di testa di Oscar nei minuti finali di Italia-Brasile. A un centimetro dall’eliminazione. A un centimetro dall’inesistenza di tutto questo. Ma erano davvero i minuti finali?

Il bello delle favole è che sono delle roccaforti inespugnabili, ma quando le ridipingi nella tua mente puoi ornare le sue torri con i ghirigori che preferisci, aggiungendo qua e là dei particolari, illudendoti della loro cruciale oggettività. Tuttavia il nucleo della storia rimane immutabile, possiede la durezza di un diamante. La storia dell’Italia vincitrice ai mondiali spagnoli del 1982 è quel diamante lì, quel tipo di favola lì: inalterabile, ma aperta a infinite digressioni. Una storia che all’interno ne contiene altre.

Il bello delle favole è che puoi decidere che Cenerentola sia bionda o rossa, curvy o skinny. Puoi fantasticare sulla biancheria intima della Bella Addormentata nel Bosco e discutere al bar (cioè, scusate, sui gruppi whatsapp) se Biancaneve fosse veramente la più bella del reame, Ma non avresti la libertà di spingerti così lontano, nel mare aperto delle digressioni, se non avessi la certezza di tornare ad attraccare in un porto sicuro. La storia del Mundial 82 è un porto sicuro. Protetto dai risultati e dai documenti, dai volti e dalle parole dei protagonisti.

Una di quelle narrazioni orali che oltrepassano le barriere generazionali, e servono su un piatto d’argento quella retorica nutriente, necessaria alla catena alimentare del nostro immaginario. Ne abbiamo bisogno. Questa favola che straripa nel mito, incurante di ogni unità di misura, ce la ri-racconta il sostanzioso documentario di Coralla Ciccolini, prodotto da Simona Ercolani (la stessa mente dietro il celebratissimo “Sfide”), con la direzione artistica di Beppe Tufarulo.

Lo fa con rigore. Non quello dagli 11 metri, ma il rigore necessario per raccontare di nuovo (perché la narrazione si autoalimenta e si forgia di volta in volta) un’impresa epica, utilizzando sfumature inedite, andando a pescare molte immagini di repertorio mai viste, come i ‘rushes’ prelevati dall’archivio della Fifa, ovvero delle immagini mai trasmesse che ci permettono di rivisitare le azioni della Nazionale da punti di vista più ‘sporchi’ ed esclusivi. E naturalmente affidando ai testimoni oculari e ai vincitori la bacchetta dei direttori d’orchestra.

“Italia 1982 – Una storia azzurra” usciva al cinema lo scorso luglio, a 40 anni dalla vittoriosa finale degli Azzurri al Santiago Bernabeu di Madrid contro la Germania (la Germania Ovest per la precisione) e fa la sua comparsa sul piccolo schermo adesso, alla vigilia dei mondiali 2022.

Un campionato del mondo senza l’Italia, in autunno e in Qatar. Apriti cielo: il calcio business, gli sponsor, gli ingaggi immorali, i diritti tv, gli scarpini di tutti i colori, i giocatori come ballerine.

Tutte scuse. Se ci fossimo qualificati per la fase finale, i chioschi abbonderebbero di bandiere e trombette.  Con la certezza comunque di dover sempre fare i conti con l’Italia dell’82, il calco di tutte le imprese. Un paragone che già in partenza sa di sconfitta. Italia ’82 vincerebbe 2-0 in un virtuale spareggio contro ogni altro poema epico calcistico. Sarebbe difficile anche accorciare le distanze. Il motivo è banale. L’epoca in cui c’era una maggiore reattività ad assorbire l’importanza di un avvenimento è passata da un pezzo, soggiogata dalla legge non scritta dell’intrattenimento: quando la frequenza degli eventi diventa eccessiva, l’importanza degli stessi tende a diminuire. Il sovraffollamento degli appuntamenti stempera le aspettative e l’ansia di prestazione. Non tutte le ansie di prestazione, ma ci siamo capiti.

Quale migliore occasione, quindi, per riassaporare i corroboranti valori morali del calcio che fu? Più umanizzato e misurabile. Quando i calciatori non erano esplosive macchine da guerra ma avevano un fisico più adiacente al nostro (beh… più o meno). Avevano persino i peli sul torace e le mutande senza marca. Le loro esultanze erano sanguigne e spontanee, non sketch da teatro delle marionette. Il Commissario Tecnico Enzo Bearzot fumava la pipa in panchina, mentre adesso vige il dogma del No Smoking pure all’aria aperta. Quando i big match erano davvero dei casi mediatici. Erano l’incursione della meraviglia nel nostro scialbo angoletto spazio-temporale quotidiano. Molto prima delle pay tv con i loro palinsesti overflow che per 20 euro al mese trasmettono decine di partite.

Il mondiale e i suoi duelli tra nazioni, che non si incontravano neppure al G20 – semplicemente perché non c’era un G20 –  erano un biglietto di sola andata per la Luna, un giro gratis nella fabbrica di cioccolato. Ora, con la Uefa Nations League, un’Italia-Germania lo trovi sullo scaffale del supermercato, tra i biscotti senza glutine e il pane cotto su pietra. Cenerentola è diventata una vicina di casa e gira voce che sia sempre disponibile. Basta suonare. Del resto è vero o non è vero che ci ricordiamo il primo capitolo della saga di “Rocky” e il primo film della trilogia di “Ritorno al Futuro” meglio di quanto non ci ricordiamo dei loro sequel? E non è a causa di questa legge non scritta che in molti passano ore sul divano a perlustrare i trailer di Netflix prima di essere arrestati per vagabondaggio?

Ma sono scivolato nella retorica anche io. Torniamo in campo. Anzi al bar, perché parlare di calcio dà più gusto che vederlo giocare. Siamo pur sempre la nazione nel cui sangue scorre la linfa del dibattito post-partita.

Nel documentario sfilano gli eroi che fecero l’impresa. Da Dino Zoff, che vinse il mondiale da quarantenne – quando i quaranta non erano ancora i nuovi trenta – fino a Beppe Bergomi, che sfoggiava dei folti baffi da pornostar d’antan. Sembrava avesse 36 anni, invece ne aveva 18: non aveva i nervi saldi e l’audacia per girare un video su Tik Tok, per carità di Dio, ma non se la cavò male contro l’armata brasiliana di Zico, Junior e Socrates.

Sfilano persino Franco Selvaggi e Beppe Dossena, che il campo non lo videro mai. Convocati senza nemmeno un minuto giocato da registrare nell’almanacco. Ma i loro aneddoti sono tanto inestimabili quanto quelli di Marco Tardelli il cui urlo, più famoso dell’omologo dipinto da Munch, ha un tale valore universale da poter essere dichiarato patrimonio dell’Unesco senza che qualcuno abbia da ridire. A parte i tedeschi, va da sé. I tedeschi dell’Ovest, sempre per la precisione.

E ci sono Bruno Conti, Fulvio Collovati e Giancarlo Antognoni, che la finale non la giocò per colpa di un infortunio rimediato in semifinale contro la Polonia. Lo ‘stregato’ Antognoni che pochi mesi prima aveva rischiato di morire sul campo di Firenze dopo un terribile scontro con il portiere del Genoa, Silvano Martina.

Scopriamo che Daniele Massaro, altro convocato mai subentrato nemmeno per un secondo, fu il giocatore autorizzato da Enzo Bearzot a scattare foto a bordo campo durante gli allenamenti. Quel Bearzot, il Vecio, più iconico del Re di Briscola che incarnava sia la figura del generale di un’armata Brancaleone, sia il bonario ma fumantino genitore di una famiglia allargata a 22 componenti. L’allenatore di un’epoca in cui ancora non si discuteva ossessivamente di 4-4-2, falso nueve e di costruzione dal basso. Qualcuno sa per caso con che modulo giocasse quella squadra che trionfò in Spagna?

Scopriamo che i nostri eroi per caricarsi e concentrarsi intonavano “Cuccurucucù Paloma” di Franco Battiato, mentre erano impegnati a lavare i panni in famiglia, cioè negli spogliatoi e sul pullman verso lo stadio, soli contro tutti, arroccati nel silenzio stampa per resistere allo stillicidio dei giornali che tiravano al piccione dando voce a un paese distrutto dai tre deludenti pareggi nel girone eliminatorio contro Polonia, Perù e Camerun. L’Italia stava per affrontare Argentina e Brasile. Non avevamo nessuna speranza. Vergogna, si scriveva. Un attacco a tutto spiano contro i giocatori e lo staff che gli autori del documentario scelgono come fischio d’inizio per ricominciare la partita. C’era una volta la bufera mediatica. No, quella c’è ancora, alla bisogna.

Il punto chiave del documentario risiede nell’abilità di annodare il contesto culturale alla struttura drammaturgica ricavata all’interno della favola.

Può sembrare una forzatura da manifesto pubblicitario, ma ci avviciniamo molto al nettare narrativo, o almeno a come, con il tempo, le api della narrazione hanno impollinato la nostra memoria storica, se entriamo nell’ottica di una nazione che nel 1982 aveva ancora un piede negli Anni di Piombo, un altro nel ricordo ancora vivo del terremoto in Irpinia e, calcisticamente parlando, era in uno stato di degenza dopo la pagina nera del calcio scommesse.

E se in questa ottica ci infiliamo lo schema sempre vincente del passaggio dal quasi fallimento al trionfo, dal naufragio alla resurrezione, ecco che il quadro dell’impresa sportiva comincia a diventare indelebile, a superare il perimetro dello sport per assumere i contorni di un’eredità culturale più vasta, di un retaggio da tramandare.

Siamo il paese che dal Dopoguerra si ricostruisce e decolla verso il boom economico, il paese che dal cinema Neorealista, avanzando fluidamente e a schiena dritta fino alla Commedia All’Italiana, ha saputo raccontarsi in corso d’opera. Risollevarci dalle ceneri ci eccita, è parte di noi. Oppure ci convinciamo che lo sia. Sicuramente ci piace raccontarcelo, con presunzione e un pizzico di autoreferenzialità. Il bello delle favole è anche questo.

 

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