“Il traditore”, film di Bellocchio su Netflix, e del perché se si dà retta ad un algoritmo non umano si può perdere qualcosa di speciale
Voto: 9 al film, 3 all’algoritmo
Metti che a uno non piacciano i film biografici. Metti che in una famiglia nessuno guardi cinema ‘impegnato’ o storie di mafia. Metti che l’abbonamento di Netflix uno lo condivida con una coppia giovane che guarda solo serie tv di Shonda Rhimes. Metti tutte le preferenze in base alle quali l’algoritmo non umano fa i suoi calcoli e sceglie cosa consigliarti di vedere quando vai sulla piattaforma: in questo caso, mai ti sarebbe (e infatti non mi è stato) consigliato di vedere un film splendido nel suo genere, un film da 9 pieno, Il traditore, di Marco Bellocchio con Pierfrancesco Favino, del 2019, che racconta la storia del primo e più importante pentito di mafia, Tommaso Buscetta detto Don Masino.
Anche la storia, conosciuta in diretta per aver vissuto quegli anni, tra il 1984 e il 1986, potrebbe non essere invitante per chi preferisca un cinema di intrattenimento. Tuttavia, come rappresentante di un algoritmo che ha scelto di essere umano, voglio invece consigliare caldamente questo film, non solo per la sue numerose qualità intrinsecamente cinematografiche, ma proprio per la sua capacità di intrattenere e catturare, fine ultimo e supremo della settima arte, senza derogare a un dichiarato intento di cronaca sociale.
La storia percorre gli anni Ottanta del Novecento, con la guerra aperta tra le cosche mafiose siciliane: da una parte le vecchie famiglie e dall’altra i ‘nuovi’ mafiosi, i Corleonesi, capitanati da Totò Riina. Tommaso Buscetta, protagonista del film, porta la sua famiglia più recente, i suoi affari criminali e sé stesso dall’altra parte del mondo, in Brasile, proprio cercando di sfuggire alla nuova onda mafiosa, che nella sua ottica non è più capace di rispettare i ‘valori’ fondanti di Cosa Nostra (la mafia, come dice lui stesso in un interrogatorio, è un’invenzione della stampa: per gli affiliati, la grande famiglia per cui dare la vita è sempre solo Cosa Nostra). Mentre in Italia si susseguono le violenze della guerra interna alle cosche, con tradimenti da parte di persone che Buscetta riteneva amiche, in Brasile Don Masino viene catturato dalla polizia, che nel regime di quel tempo non andava tanto per il sottile. Dopo mesi di tortura e di ricatti che coinvolgono la sua famiglia ma che non lo convincono a denunciare nessuno, Buscetta viene estradato in Italia. E qui incontra l’uomo che cambia la sua vita, anzi, che cambia la storia d’Italia: il giudice Giovanni Falcone, che lo convince a pentirsi, e a diventare ‘il traditore’ agli occhi di tutti gli altri mafiosi.
Marco Bellocchio è il regista di un cinema asciutto, duro ma nella sua estetica fondamentalmente sobrio. La sobrietà della sua messa in scena, oltre che della sceneggiatura (firmata insieme a Francesco Piccolo, Valia Santella e Ludovica Rampoldi) fa sì che, come Buscetta non è mai un antieroe di taglia epica, così nemmeno Falcone è un eroe dall’armatura scintillante. La retorica è abolita, e gli incontri tra questi due personaggi che hanno effettivamente invertito la rotta della storia del nostro Paese hanno una dimensione quotidiana, senza proclami roboanti. Quando Buscetta si decide infine a collaborare con la giustizia, e parte con una sorta di prologo narrativo parlando dei ‘valori’ della mafia di una volta contrapposti alla cieca crudeltà dello stile dei Corleonesi, Falcone lo interrompe con una delle poche battute che gli sono assegnate nel film, dicendo semplicemente, banalmente, “Ma quali valori! (…) Non mi prenda per il culo, Buscetta!”. Il personaggio come la persona, e il regista racconta i fatti, non vuol creare una leggenda. I due attori (Falcone è un misuratissimo Fausto Russo Alesi) si affrontano senza mai trascendere, senza gratuiti pezzi di bravura, come in un vero confronto tra un pluripregiudicato disposto a collaborare e un magistrato onesto e coraggioso che avrebbe fatto volentieri a meno della necessità di immolarsi come un eroe da tragedia greca.
E con la stessa sobrietà prosegue la storia, con l’inizio del maxi processo nella famosa aula bunker, che chi sia cresciuto negli anni ’80 non può non ricordare: le deposizioni dei pentiti di spalle, le gabbie con i mafiosi vocianti e dissacranti, i giudici sudati, provati, sfiniti. Niente di eroico, mentre si compiva un evento eroico, niente di esteticamente affascinante, mentre si cercava di compiere la più affascinante delle azioni umane, il raggiungimento della giustizia. Bellocchio firma un film su una storia criminale che si allontana volutamente dalla retorica dei bellissimi gangster movie americani, in cui il ‘cattivo’ ha un fascino irresistibile e le sue vicende finiscono per ammaliare con l’ambigua bellezza del male.
Qui no: Buscetta è un uomo che decide quasi per caso di diventare un pentito, un ‘traditore’, e che con coerenza rispetta i suoi ‘patti’ fino alla fine ma senza assurgere a figura tragica, o appunto eroica. E i veri ‘cattivi’, Totò Riina e Pippo Calò, non hanno nessun tipo di fascino nemmeno maligno, sono senza cuore e senza misura drammaturgica, senza niente, sono -giustamente- mostri dimessi, personaggi di serie B, a cui non viene dato nemmeno l’onore delle armi.
Così si arriva fino alla morte di Falcone, anche questa rievocata con dolore asciutto, senza svenevolezze sentimentali, e al successivo processo contro Andreotti, in cui Buscetta arriva a perdere parte della sua credibilità come pentito grazie alla bravura dell’avvocato dell’imputato. La storia dunque viene ripercorsa tutta, con precisione documentaria fredda anche se non anonima, con la lente del tempo che è passato e delle riflessioni che si sono fatte. Il giudizio c’è, ma anche questo più razionale che passionale: Tommaso Buscetta aveva la sua storia e le sue ragioni per fare quello che ha fatto, nel bene e nel male, e il regista Bellocchio racconta la sua vicenda senza lasciarsi trascinare e innamorare dal suo personaggio, solo seguendolo con parca empatia e somma precisione ricostruttiva. Così come fa il suo interprete, un Favino davvero davvero perfetto: mai primadonna, sempre attento a fare di Don Masino un uomo come un altro, non un Padrino di eccezionale cattiveria né un Figliol Prodigo con cui congratularsi, ma una creatura che, per un caso del destino, ha piegato il corso della storia italiana.
Tutto questo, raccontato con una perfezione e una misura che ti fanno riinnamorare del cinema, e arrabbiare con il fallace algoritmo che ti ha fatto sprecare due anni prima di vedere questo esemplare eccellente di film d’autore, perché sarà pure algoritmo, ma i calcoli stavolta li ha sbagliati.