Su Netflix spopola “La legge di Lidia Poet”, poliziesco in costume con Matilda De Angelis sulla vicenda della prima avvocata della storia d’Italia sul finire dell’800, ispirato molto, ma molto liberamente alla vera storia del personaggio
Lidia Poet è stata la prima donna ad essere iscritta all’ordine degli Avvocati in Italia, una prima volta nel 1883 per poi però esserne cacciata, dal momento che la professione dell’avvocatura non poteva essere esercitata da donne – come decise la Corte di Appello di Torino cancellandola subito dall’albo, inorridita dall’idea che una toga venisse indossata sopra gli abiti femminili così ‘tipicamente strani e bizzarri’ – e poi definitivamente molti anni e ricorsi dopo, nel 1919 (ma questo esula dall’ambito del racconto televisivo, quindi del nostro interesse).
Detta così, la storia, ammettiamolo, potrebbe interessare una porzione di pubblico potenziale abbastanza esigua. Va bene che l’istanza femminista è di grande attualità, ma la storia di una suffragetta chi può attirare?
Come si può rendere più spettacolare la vicenda di una donna che ha lavorato duramente e dietro le quinte per avere il diritto di difendere gli ultimi? si è chiesta Netflix davanti all’idea originale. E la risposta è in questa serie, o meglio la risposta E’ questa serie, sei episodi stra-glamour e iper-pubblicizzati che stanno facendo volare alto nel gradimento il racconto, nobile di per sé ma un po’ polveroso, di una prode fanciulla che due secoli fa batteva i piedi per farsi riconoscere un diritto che oggi è serenamente acquisito, quello di esercitare la professione di avvocato negata alle donne.
L’ATTRATTIVA DELLA SUFFRAGETTA
E l’ingrediente chiave della Netflix-ricetta è la protagonista. Matilda De Angelis è bella, anzi di più, è carismatica, intrigante, debitamente consapevole nello scenario social e televisivo, sufficientemente presente nell’immaginario degli spettatori, e palesemente bravissima. La ventisettenne bolognese vestita con costumi ‘strani e bizzarri’ e scenografici e acconciata nello stile clamorosamente seducente della fine dell’Ottocento e trasformata in una donna ribelle, coraggiosa e talentuosissima è un gancio praticamente irresistibile per gli spettatori, che sono infatti accorsi a guardare “La legge di Lidia Poet”, che sulla carta – appunto – avrebbe avuto come bacino giusto un pugno di sessantottine colte o di laureande appassionate di vintage.
Il gancio ha funzionato, e l’utente Netflix si è trovato davanti un prodotto godibilissimo e molto ben confezionato. Matteo Rovere (“Il Primo Re”, “Romulus”) e Letizia Lamartire (“Il divin codino”, “Baby”) hanno reso ‘leggera’ una storia vera e un po’ datata, rileggendo la vicenda di Lidia Poet e immaginando la sua protagonista come un classico ‘avvocato indagatore’, con l’effetto finale di un procedural light con toni di commedia pur rimanendo perfettamente all’interno del forte valore simbolico ed educativo della storia.
LA STORIA
Nei sei episodi Lidia/Matilda scalpita per essere riammessa all’ordine degli avvocati, va a vivere in casa del fratello maggiore avvocato Enrico, interagisce freneticamente con la figlia di Enrico e sua moglie, rigida e conservatrice, e molto anche col fratello di quest’ultima, il reporter e attivista Jacopo, e in ogni episodio affronta un caso criminale: difendendo da accuse di omicidio innocenti maniaci disperati, attiviste anarchiche, amici oppiomani, ragazze libere, donne fuori di testa, prostitute e cognati ingenui. Le trame crime sono credibili e sufficientemente avvincenti, ma è la trama orizzontale quella che regge l’intero sistema: la lotta di Lidia per avere il posto che merita e riottenere l’iscrizione all’albo, il continuo tira e molla per essere credibile agli occhi dei colleghi e soprattutto del fratello, che dall’iniziale sconcerto per le bizze della sorella minore passa a un incrollabile rispetto e assoluta fiducia nelle sue capacità.
LA STORIA VERA (A CHI IMPORTA?)
Il vero fratello di Lidia Poet non aveva moglie né figli, e da questo iniziale tradimento del racconto susseguono gli altri: praticamente tutti i personaggi che circondano Lidia sono inventati, facendo così risultare essa stessa una creatura quasi totalmente di fantasia. La polemica si stronca quindi sul nascere: un’erede della vera Poet ha provato a lamentarsi della sghembissima ricostruzione della vita della sua ava, ma il liberamente tratto che i registi hanno messo davanti alla vera storia assolve a priori qualsiasi loro scelta. Anche la più contestata, cioè quella di mostrare la giovane avvocata come anticonformista, ribelle ed emancipata prima di tutto dal punto di vista sessuale. Disinibita e sfacciatamente sensuale (e a tratti volgare come un carrettiere), la Lidia Poet della serie tv avrebbe probabilmente scandalizzato la vera avvocata di fine secolo.
E pur non avendo materia per una vera polemica e non essendo moralisti, anche secondo noi questa scelta non aggiunge molto ne è davvero motivata. Il primo episodio si apre con una scena esplicita di sospiri e carni nude in cui vediamo porzioni generose del corpo della protagonista avvinta in amplesso con il suo amante: sapendo l’importanza simbolica degli incipit nei prodotti artistici, ne deduciamo un interesse centrale dei registi per la disinvoltura sessuale delle loro creatura. E avendo un ampio spettro di possibilità per mostrare l’emancipazione di Lidia Poet, scegliere di indugiare sulla disinibizione sessuale pare giustificato prioritariamente dall’avere davanti alla telecamera lo splendore della De Angelis e non volerlo ‘sprecare’: scelta quindi non necessaria al racconto, magari nata da motivazioni stilistiche, senza dubbio efficace, ma fondamentalmente paracula.
E in generale pare che alla giovane ma navigata Matilda sia affidata troppa responsabilità, come se il peso dell’operazione a volte cada solo sulle spalle della sua bellezza, intensità, capacità di alleggerire, di dare senso appunto a scene di sesso onestamente buttate lì ‘di botto, senza senso’ (abusata ma efficace citazione da “Boris”) o a siparietti che ascoltati a occhi chiusi appaiono a volte miserelli. Peccato, sia perché la storia di Lidia Poet è oggettivamente forte, sia perché anche i personaggi secondari avevano potenzialità rimaste un po’ inespresse.
Come il fratello dell’avvocata, Enrico Poet, espressione del più genuino perbenismo sabaudo che però finisce col cedere alla voce dell’amore e dell’intelligenza rivoluzionaria, interpretato da Pier Luigi Pasino, musicista e attore veramente piemontese, l’unico tra gli interpreti ad avere un profilo credibilmente ottocentesco. O il reporter anarchico e passionale Jacopo, interpretato dal fascinosissimo Eduardo Scarpetta, altro carismatico giovane attore (eccellente protagonista in Le fate ignoranti di Ozpetek) capace di catturare la telecamera senza sforzo, e che regala al personaggio il giusto guizzo libertino e giocoso. E soprattutto la nostra preferita, la moglie di Enrico, sorella di Jacopo e cognata di Lidia, che già in questa presentazione mostra la condizione vera della donna di quel periodo, spersonalizzata in sé e senza altro ruolo che quello ‘in relazione’ a qualcun altro. Livorosa e conformista, la sua Teresa ha il volto versatile di Sara Lazzaro, ultimamente vista in “Call My Agent”, “Siccità” e “Sono Lillo”.
GIUDIZIO FINALE
Insomma, una serie con grandi premesse e una buona riuscita, ma che lascia un po’ delusi nell’insieme per una sorta di pigrizia che si scorge tra le righe, come se lo sforzo fatto in alcuni settori (soggetto, casting, costumi, trame) avesse stancato la produzione che in altri (credibilità storica, sceneggiatura, dialoghi, approfondimento dei personaggi) si è accomodata e accontentata, come si dice con orrendo lessico sportivo, di portare a casa il risultato.