MANK (NETFLIX)

E’ TUTTO UN TRUCCO, BELLEZZA!

VOTO 7.5

 

David Fincher mette in scena un’opera sofisticata ed esteticamente superlativa per raccontare la Hollywood degli anni ’30 attraverso la figura chiave di Herman J. Mankiewicz, lo sceneggiatore di “Quarto potere”, considerato il film più importante della storia del cinema. Ma nella perfezione figurativa si smarrisce il calore e la magia del cinema stesso, mentre emerge, debordante, la prova attoriale del protagonista Gary Oldman.

Nella Hollywood della Grande Depressione, su cui albeggia in tutta la sua luccicanza il cinema sonoro, il drammaturgo e giornalista Herman ‘Mank’ Mankiewicz è il tipico personaggio scomodo e donchisciottesco, insofferente alle regole che governano i rapporti fra le Major.

In quegli anni, la macchina dei sogni è un’industria dal meccanismo rodato, saldamente in mano a un’oligarchia che vede competere la Warner Bros, la MGM, la Rko, la Paramount e la 20th Century Fox (le Big Five). Accanto ad esse, agiscono le cosiddette Minor (o Little Three): la Universal, la Columbia e la United Artists. Meno ricche ma ugualmente influenti.

Ogni studio ha le proprie peculiarità produttive e narrative, e i boss che le dirigono sono i guru di un mercato di cui scrivono le regole, sfornando centinaia di pellicole l’anno. Con l’addio al cinema muto gli sceneggiatori, fino a questo momento confinati nel bassifondi della piramide creativa, cominciano a scalare la cima. Il potere della parola fa il suo ingresso nel salotto buono dell’industria cinematografica, offrendo una nuova combinazione per aprire la cassaforte del box office. Una rivoluzione.

E tra gli sceneggiatori, Mank è uno dei migliori. Oratore sopraffino e irrefrenabile, con una gavetta da corrispondente a Berlino per il Chicago Tribune e da critico teatrale per un paio di giornali newyorkesi, Mank è uomo dalla cultura smisurata e dal sarcasmo affilato.

Possiede, però, modi e visioni del mondo da outsider all’interno della sovrastruttura dominante. Non gli giova, inoltre, l’inclinazione verso idee progressiste che, nel regno dei ricchi conservatori, sono etichettate come apertamente socialiste. La sua passione per l’alcol e il gioco d’azzardo chiude il cerchio dentro il quale viene spesso squalificato e bollato come buffone di corte.

Mank è un idealista cinico e scafato al servizio di squali e portaborse. Tra questi (squali) c’è naturalmente il magnate dell’editoria William Randolph Hearst, che troneggia su Hollywood dalle sale del suo castello a cui hanno accesso gli uomini più influenti della politica e dell’intrattenimento.

Gli incontri di Mank con Hearst e con la moglie di quest’ultimo, la musa Marion Davies (a cui con una smagliante interpretazione presta il volto Amanda Seyfried) costituiscono la base per la sceneggiatura di “Quarto potere”, in cui Hearst diventa il fittizio Charles Foster Kane.

Mank la scrive in soli sessanta giorni, recluso in una casa isolata nel deserto del Mojave, in compagnia di una segretaria, una dattilografa e una cassa di whisky. Siamo nel 1940 e Mank ha ormai fatto terra bruciata intorno a sé, inimicandosi i suddetti squali, quando viene ingaggiato da Orson Welles, lo spavaldo Golden Boy a cui la Rko ha offerto un contratto impensabile per l’epoca. Una libertà artistica assoluta dalla quale sarebbe poi nato un capolavoro curiosamente antihollywoodiano, in quanto sigillava la supremazia del singolo artista sul prodotto finito, soverchiando le logiche dell’oligopolio delle Major.

Fincher racconta tutto questo con un’operazione vintage che, dal punto di vista tecnico è impeccabile. Girato in digitale, il film sfoggia un’autentica simulazione dei film in bianco e nero dell’epoca, ottenuta girando in altissima risoluzione per poi degradare il materiale in fase di post-produzione, con l’aggiunta di graffi, bruciature di sigaretta, escoriazione della pellicola e finti segni di fine rullo.

Il passaggio fra le varie sequenze è inoltre scandito da didascalie in sovraimpressione che rimandano alle battiture di una sceneggiatura scritta a macchina. Le scenografie sembrano estratte dallo scrigno della Art Direction del cinema che fu. E, coerentemente con il progetto, la musica è stata registrata con microfoni datati per ottenere un effetto retrò anche per la traccia audio.

L’omaggio non si ferma qui, ma si insinua ancora più nello specifico imitando anche alcune inquadrature di “Quarto potere”, di cui riprende la struttura narrativa a flashback, l’uso smodato di grandangoli e l’ostentazione della profondità di campo.

Un’operazione lodevole, un trucco da primo della classe, ma estremamente ‘cinefilo’ ed elitario che confida in uno spettatore diligente e informato, in grado di orientarsi fra la ridda di nomi e la complessità della carne al fuoco: i rapporti fra politica e industria cinematografica, lo Studio System con le sue dinamiche interne, la Grande Depressione, le sirene socialiste, la centralità della parola in controtendenza all’arte del muto. E poi il cinema come Mito. Il cinema come snodo cruciale della storia americana. Troppa abbondanza che mina la fruibilità del prodotto.

Il film di Fincher, tuttavia, non è solo un biopic sulla figura di Herman J. Mankiewicz, partendo dal quale il regista abbraccia un’intera epoca come in un gigantesco affresco che ricalibra l’importanza culturale degli sceneggiatori. Sbirciando fra le tessere di questo mosaico, col filtro degli occhi di Mank si rintracciano due temi trasversali e attuali.

Il primo è lo spettro delle fake news: Fincher fa riferimento a un finto cinegiornale girato alla vigilia delle elezioni del 1934 che, screditando il ‘bolscevico’ Upton Sinclair, favorì la vittoria del conservatore Frank Merriam nella corsa a governatore della California.

Un falso. Che puntava sulla mancanza di malizia di un popolo spettatore reso vulnerabile dalla Grande Depressione e privo di ogni strumento critico che arginasse quello che all’epoca era il medium più potente.

E che, parafrasando, fa dire a Mank: “Dobbiamo restare vigili, abbiamo una grande responsabilità verso le persone che si siedono nell’ombra delle sale e lasciano l’incredulità fuori dalla porta”.

Mank, l’irriducibile iconoclasta, scopre di essere complice di un meccanismo pericoloso dove l’immagine falsifica la parola, ne deforma il significato, la rende strumento di propaganda.

In aggiunta, David Fincher si posiziona ancora una volta al confine di una frontiera, la terra promessa di una nuova forma di intrattenimento e di comunicazione. A quasi vent’anni da “The Social Network” (altra storia di primi della classe e spartizione di malloppi), Fincher ripunta lo sguardo su una cerniera storica che cambia tutte le carte su tutte le tavole.

In questo avamposto di confine il fruitore, sia esso lo spettatore o l’utente, soggiorna nel luogo dell’ignoranza e della vulnerabilità, illudendosi di essere parte della magia (del cinema, dell’era digitale, dell’intrattenimento e di ogni nuova frontiera manipolata dal capitalismo). Si illude di essere coprotagonista di una rivoluzione che lo lusinga mentre è di fatto ignaro del trucco, e paga pegno in denaro o in dati sensibili forniti all’incantatore di serpenti.

Un concetto che, tornando a “Mank”, si racchiude nelle parole pronunciate durante il film dal produttore della MGM, Louis B. Mayer, quando illustra il suo mestiere in una drastica sintesi del mondo in cui lui stesso scalpita e si sazia: “Il cinema è un’attività in cui l’acquirente con i soldi ottiene solo un ricordo. Ciò che compra appartiene ancora a chi l’ha venduto ed è questa la vera magia”.

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L’ALGORITMO UMANO consiglia

QUARTO POTERE (Amazon Prime)

 

Cercare in poche righe di suggerire la visione di “Quarto potere” è come descrivere un orgasmo intonando una serenata in sanscrito. Immaginate la storia della musica se non ci fossero stati i Beatles. Oppure al cattolicesimo senza il Vangelo. “Quarto potere” è la sacra scrittura della storia del cinema; è “Yesterday” cantata dai Fab Four in persona nel vostro salotto. E di metafore ce ne sarebbero a decine, come le innovazioni stilistiche e narrative che il prodigio barocco di Orson Welles regalò a un’arte ancora giovane. Vedetelo e godete. La storia del cinema, se lo amate, se ancora vi commuovete per la purezza del genio, passa di qui almeno una volta nella vita di ognuno.

 

 

 

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