Una serie comedy attraversata da inquietudini esistenziali con Paul Rudd in un duplice ruolo. Ma fra i due sosia litiganti vince l’irresistibile comica irlandese Aisling Bea. Su Netflix: “Living with Yourself”.
La versione migliore di te stesso! Con questo slogan motivazionale (uno dei virus incurabili del nuovo millennio) l’insoddisfatto pubblicitario Miles Elliott varca, da solo, l’ingresso di una spa clandestina che promette miracolosi rimescolamenti del DNA, ma ne esce clonato a causa di un banale incidente tecnico.
Questa è la miccia che accende il fuoco di “Living with Yourself” con Paul Rudd in un doppio ruolo: mentre il vecchio Miles continua ad essere sciatto nella sua sciatta routine, il suo gemello “2.0” è davvero brillante, seduttivo e con una marcia in più. Seguono equivoci di prammatica e rovesci narrativi da gustare.
Una (quasi) commedia in otto episodi da 30 minuti circa (un punto a favore per i binge-watchers) quella prodotta da Netflix, che si distingue per un registro comico dalle venature dark e grottesche, che producono una continua oscillazione fra generi.
Così come per Miles e per altri avventori della spa, anche il DNA di “Living with Yourself” unisce e impasta ingredienti dal sapore opposto per diventare, di scena in scena, una versione diversa di se stessa. Migliore o peggiore, dipende dai momenti.
Un ondeggiamento spiazzante che si colloca piacevolmente nello slot dell’ironia quando il pendolo segue una traiettoria da tragedia esistenziale e, al contempo, una storia in grado di produrre interrogativi filosofici sostanziosi, al limite dello sgomento, nel mezzo di situazioni slapstick. Specie nell’ultimissima sequenza che, da sola, vale il prezzo del divano per la matassa di sfumature sinistre che lascia intravedere.
“Living with Yourself” è un capolavoro? Non proprio. Ma ha un’ammirevole ambizione di fondo che merita una visione.
Tutto dipende anche dai modelli di riferimento. La miccia di cui sopra produce un fuoco che a tratti perde la sua vivacità, anche per un incedere narrativo scandito da incastri temporali e da flashback raccontati da prospettive differenti che arrugginiscono la fluidità del percorso.
Il tema del doppio è roba seria, così come il rimuginare sull’eterno dilemma della propria identità. Oltre al troppo facile, e un po’ impreciso, rimando a “Dottor Jekyll e Mr Hyde”, guardando “Living with Yourself” si pensa soprattutto alle battaglie della mente e del corpo, imprigionati in situazioni surreali, che ci ha regalato, fra gli altri, un grande autore come Harold Ramis (“Ricomincio da capo”, “Mi sdoppio in quattro” e “Indiavolato”).
Ma soprattutto, quando Miles si scopre geloso di un se stesso più pragmatico e fantasioso, specie nel rapporto con la moglie, l’inevitabile (e commovente) ricordo cinefilo conduce a “Irma la dolce” di Billy Wilder con Jack Lemmon. Ma Billy Wilder è un mostro inarrivabile sul concetto di maschera e di identità devastata dell’individuo esistenzialmente in ginocchio. Che se fosse vivo, Wilder, ci avrebbe forse già fornito la bussola necessaria per orientarci nel labirinto social(e) di questi tempi dalla luce fioca.
Meglio non fare paragoni. Se non quello fra Paul Rudd e la coprotagonista, Aisling Bea. Se Rudd, al primo vero ruolo da star in uno show televisivo, risulta convincente solo a tratti, è la vulcanica comedian irlandese ad accendere ogni scena in cui compare, surclassando da sola e senza bisogno di cloni il suo compagno di set moltiplicato per due. E se la vedrete recitare in originale vi innamorerete perdutamente sia del suo accento marcato sia del suo modo di ballare, nella scena più indimenticabile della serie.