“E NOI COME STRONZI RIMANEMMO A GUARDARE”: IL NUOVO FILM DI PIF DA’ UN’ULTERIORE PROVA DELLA SUA CAPACITA’ DI AFFRONTARE CON GRAZIA TEMI ANGOSCIANTI, CHE LASCIANO IL SORRISO CON L’AMARO IN BOCCA
Dopo la mafia e l’amore, dopo la criminalità la vendetta l’ingiustizia e l’amore, Pierfrancesco Diliberto in arte Pif, nella veste di regista e autore, si dedica a un tema di strisciante attualità, l’invadenza dei social e della tecnologia e la limitazione delle libertà di scelta personali al tempo di Internet (e l’amore, va da sé). Sky Cinema presenta il nuovo film scritto e diretto da Pif, “E noi come stronzi rimanemmo a guardare”. Suggerendo di ignorare i testi vagamente fuorvianti delle agenzie stampa, il nostro algoritmo, quello umano, consiglia vivamente la visione, lasciandosi tentare dal titolo più paraculo degli ultimi dieci anni.
L’IDEA
A volte quando c’è un’idea forte a sostenere un film di un autore di non larghissima esperienza, l’amante del cinema trema: avere un’idea anche ottima non vuol dire sempre (vuol dire di rado, per essere statisticamente onesti) realizzarla ottimamente.
Qui l’idea c’è: un uomo vede la sua vita rovinata dalle scelte degli algoritmi, iniziando da quello che lui stesso ha creato per il settore risorse umane della sua azienda. Il calcolatore che ha creato per la ditta in cui lavora e che misura la produttività dei lavoratori decide un giorno che è proprio lui a non essere più necessario all’azienda, che coerentemente lo licenzia in tronco. Il giorno prima intanto l’algoritmo di un’applicazione ‘sentimentale’ gli è già costato la fidanzata, e da ora in poi tutti gli algoritmi che incontra cercando un nuovo lavoro sono contro di lui: il quarantottenne Arturo, che ha la faccia stropicciata e via via più attonita di Fabio De Luigi, non sa che farsene della laurea in ingegneria e della sua esperienza professionale: nei siti per la ricerca del lavoro non esiste lo spazio materiale per inserire il suo curriculum. Di fatto, dopo i quarant’anni, professionalmente non si esiste più.
Alla fine il povero ingegnere trova un lavoro non meglio precisato in un’azienda di un settore non meglio precisato, e in brevissimo si trova in calzoncini corti e zaino frigorifero sulle spalle a fare consegne in bicicletta per tutta la città, dovendo avvisare i clienti del suo arrivo con un jingle cantato di raccapricciante bruttezza: la rappresentazione dell’umiliazione di questo tipo di lavoro è estremizzata, ma non inventata.
IL CUORE DELLA STORIA
Ed è qui che Pif prende il volo. L’idea di base, intelligente, si sviluppa nella denuncia sociale di una condizione lavorativa che tutti abbiamo sotto gli occhi, che chiunque abbia ordinato la cena da Glovo o simili ha potuto constatare. Con la grazia gentile della commedia, il regista sfrutta la faccia sempre più avvilita di De Luigi per far sorridere lo spettatore, che nel frattempo però si agita a disagio sul divano. Anche nel nuovo incarico un algoritmo perseguita Arturo, e vediamo messa in scena la contraddizione professionale massima: a venire chiamati per le consegne sono i rider con più punteggio e buone recensioni, quindi chi è al primo incarico o con poca esperienza rimane al palo, come nella bellissima scena del giorno che trascolora sul parcheggio delle bici, con Arturo pronto col piede sul pedale fermo fino a notte inoltrata. Sappiamo bene che è così davvero: non ci sarà un algoritmo virtuale che compare in un fumetto vicino a noi, nella realtà, ma è ben reale l’ossimoro crudele della necessità di esperienza per lavorare, esperienza che naturalmente non puoi farti se non lavorando…
Nella cornice di un futuro elegante e vestito vintage, con arredi e scenari stile anni ’40 del Novecento, Pif rappresenta una critica sociale piuttosto feroce, senza scalmanarsi mai, senza dover mostrare sporcizia e dolore esibito, ma scavando nelle pieghe di un’apparente benessere che cela l’abisso del vuoto esistenziale, sentimentale e soprattutto lavorativo.
Arturo rimane vittima di un sistema assurdo, guadagnando pochissimo ma lavorando come un pazzo, sottopagato e sottodimensionato, sempre più triste ma già preso nell’ingranaggio, incastrato nel sistema, come è simboleggiato dalla trovata migliore del film, quello zaino frigorifero le cui cinghie si guastano e rimangono chiuse per settimane, forse mesi, costringendo il protagonista a vivere con quell’ingombro sulle spalle notte e giorno. Per arrotondare, Arturo è anche costretto a prende un inquilino per dividere le spese della sua bella casa: l’inquilino è un mite professore di filosofia (Pif stesso) che, malmesso pure lui, per arrotondare a sua volta fa l’hater on line, in uno spassoso contrasto tra la sua aria paciosa e l’aggressività verbale necessaria per l’incarico di odiatore da tastiera.
Intanto però Arturo scopre che la multinazionale per cui lavora, la Fuuber, vende anche un’applicazione per cuori solitari, e fa la prova di una settimana con l’anima gemella che la tecnologia ha scelto per lui. L’algoritmo gli trova un ologramma dall’aspetto bellissimo (le fattezze sono di Ilenia Pastorelli) che lo conosce come se vivessero assieme da anni, e lui dopo venti secondi si innamora.
Da questo momento il film prende una piega sentimentale (la quota dell’amore a cui Pif, romantico, non rinuncia), con il protagonista che scopre che dietro l’ologramma c’è una persona in carne ed ossa, una lavoratrice sfruttata e infelice come lui, e tenta di riconquistare la sua concretezza di essere umano andandosela a prendere fisicamente in India, liberandosi simbolicamente e letteralmente dai lacci della Fuuber per rapire la donna in carne, ossa e consigli utili di cui si è innamorato.
IL FINALE
Pif ha il merito e il coraggio di non rappresentare un lieto fine che, stando a quello che possiamo constatare di persona, non ha possibilità di realizzarsi.
La fuga dei due innamorati è destinata a fallire, perché la tecnologia è fin troppo invasiva e si allarga in tutti i campi della loro (della nostra) vita: possono scappare fino alla tappa successiva, dove dovranno comunque venire a patti con una qualsiasi delle cose che si fanno tramite Internet (per loro la Fuuber), applicazioni, telefonino e social semplicemente per vivere. La libertà nel ventunesimo secolo è come la libertà dalla notte dei tempi: per chi non ha i soldi, non esiste. E per chi ha i soldi, è gestita da chi ne ha di più.
Gli algoritmi che invadono ogni settore della nostra vita sono diversi dalle sovrastrutture autoritarie delle società che ci hanno preceduto: allora qualcuno ci diceva cosa dovevamo fare, ora ci dicono cosa VOGLIAMO fare, ingannandoci meglio. Ingannandoci e dominandoci più profondamente perché lo fanno con la nostra collaborazione, con noi che come stronzi rimaniamo a guardare, senza opporci. Siamo noi che abbiamo dato consensi, raccontato gusti disgusti desideri e speranze a chi aveva intenzione di usare quei dati prima per venderci qualcosa, poi per comprare noi.
IL GIUDIZIO
Fondamentalmente angosciante, il finale di questo film divertente e delicato nega l’assunto della commedia, e lo rovescia in quello senza margine di miglioramento della tragedia. Il difetto che si può imputare al regista è di diventare didascalico proprio in chiusura, spiegando a parole (addirittura coi sottotitoli) il perché la fuga del protagonista risulterà alla fine inutile: un’ultima trovata narrativa sarebbe stata la soluzione più perfettamente cinematografica e avrebbe reso più incisivo il ‘messaggio’. Il nostro giudizio finale dunque è positivo, ma con riserva: il film è divertente, De Luigi conferma che se ben diretto può uscire agevolmente dalla dimensione ‘mai dire gol‘ che lo ha caratterizzato fin qui, Pif ha il pregio di proporre con leggerezza un tema che è realmente preoccupante, quello della nostra sottomissione a una tecnologia che, fingendo di farci scegliere, invece ci domina con la nostra collaborazione. Però il regista palermitano secondo noi può migliorare ancora il connubio tra piacevole/tremendo che caratterizza il suo modo di scrivere e dirigere, sbilanciando forse maggiormente a favore del disturbo l’equilibrio tra grazia e sgradevolezza che deve comporre una buona commedia. Insomma, un prodotto davvero voluto e pensato, non scelto da un algoritmo… poco umano.