DOPO IL MEZZO PASSO FALSO DI “SI VIVE UNA VOLTA SOLA”, CARLO VERDONE DECOLLA NELLO SPAZIO DORATO DELLE SERIE TV CON DIECI EPISODI A MISURA DI FAN. UNA AUTOBIOGRAFIA IN TEMPO REALE TRA IL SERIO E IL FACETO CON CUI VERDONE RIFLETTE SUL PROPRIO CINEMA E OSSERVA COME SEMPRE IL MONDO CHE LO CIRCONDA. DA FAN SFEGATATI DEL MAESTRO, CHE PER NOI E’ UN ‘COMPAGNO DI SCUOLA’ SEMPRE ‘UN SACCO BELLO’,  GLI DEDICHIAMO UN ARTICOLO SPECIALE IN DUE PARTI, AFFIANCANDO ALL’ELENCO DELLE COSE CHE CI SONO PIACIUTE MOLTO, UNA LISTA DI CRITICHE COSTRUTTIVE.

ECCO COSA CI E’ PIACIUTO

Il formato seriale.

Carlo Verdone, autore di cinema, settantenne, che ha avuto la consacrazione nel millennio passato, decide di buttarsi nell’avventura per lui inedita di scrivere, dirigere e interpretare una forma diversa, quella attualissima della miniserie: e al primo colpo ci riesce. Non fa un lungo film, o diversi piccoli film: fa una serie tv. Nelle otto puntate di Vita da Carlo ogni episodio è chiuso in sé e si può ‘consumare’ da solo, ma la trama orizzontale delle puntate esiste e regge fino alla fine: la grottesca candidatura a sindaco, che come un sogno sconclusionato ma realistico si dipana dal primo all’ultimo episodio, e soprattutto la sua semi-autobiografia di brav’uomo alle prese con il proprio successo straordinario, sostengono il racconto, dando senso all’attesa di un episodio dopo l’altro. Non solo: il finale chiude, ma, come in ogni serie che si rispetti, lascia aperta anche una possibilità di proseguimento, una eventuale seconda stagione. Da questo particolare punto di vista: perfetto.

Il 60% di invenzione.

Verdone, in tutte le interviste fatte per lanciare Vita da Carlo, ha detto che la serie è autobiografica al 40%. Carlo ci ha regalato un 40% delle sue fragilità, paure, difetti, idiosincrasie, e naturalmente ognuno pensa di aver capito quale sia quella percentuale. Secondo noi,  la porzione autobiografica è la stessa di sempre, quella presente nei suoi Sergio, Enzo, Bernardo, Ivano, Patata. Solo che stavolta la verità è una maschera che somiglia di più a lui stesso, con lo stesso nome e una storia personale simile. Ma dato che il miglior cinema di Verdone nasce dall’osservazione, e dalla fedele e spesso irresistibilmente comica rimessa in scena della vita degli altri, a noi è piaciuto Verdone tutte le volte che è uscito da sé stesso e si è lasciato guidare dal suo sguardo sospeso tra cinismo e tenerezza, tutte le volte che non ha parlato di sé e dei suoi piccoli drammi personali. Cioè:

Le scene in cui Verdone è più spettatore che protagonista.

 

Le scene ambientate in convento

In cui va a cercare pace e tranquillità e trova personaggi allucinati come Morgan (che fa sé stesso con un’autoironia dolente e quasi crudele) e un giornalista in cerca di redenzione: l’atmosfera è surreale ma non mistica, i personaggi cercano di elevarsi da una realtà terra-terra ma rimangono irrimediabilmente falliti e umani, con le loro ansie vittimistiche che ispirano tenerezza.

La lunga scena notturna al Gianicolo

in cui l’attore Alessandro Haber, anche lui autoelettosi vittima del sistema, fa un monologo di scintillante bellezza, ispirato a quello di Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare, una specie di perla di scrittura messa lì senza parere, con colui che l’ha creata (Verdone, appunto) a sminuire il tutto con la consueta aria imbarazzata di quello che per non dispiacere a nessuno non vorrebbe mostrare nemmeno di essere troppo intelligente.

La scena del cimitero.

Comicità delicatamente macabra nella scena ambientata nel cimitero monumentale del Verano, in cui Verdone è con la sua ex moglie e il suo nuovo fidanzato, il quale ultimo si presta a fare una grottesca verifica nella tomba di famiglia in cui spunta misteriosamente un cadavere in più: come nella migliore commedia all’italiana il serio e il sacro vengono incrinati e appannati dall’irrompere della vita vera, che ti strappa un sorriso incongruo nel posto meno opportuno.

L’incontro con il padre di Chicco

Un criminale agli arresti domiciliari. In una borgata malmessa e senza apparente speranza dove a nessuno interessa di Carlo Verdone, Carlo Verdone di nuovo recupera il suo sguardo tra giudicante e compassionevole, afflitto nel guardare lo scempio di un uomo che non ha dignità né rispetto per gli altri: un personaggio caricato e sgradevole, lontano dai piccoli coatti gentili, iperbolici ma rassicuranti, che popolano la filmografia del regista. E’ un Verdone disincantato quello che visita Corviale nel 2021, e che scopre di voler portare con sé nella sua gabbia dorata il figlio di quell’uomo che non ha speranza per sé stesso, quindi figuriamoci per la sua prole.

La fan malata terminale.

Da un incontro in farmacia, come tutti sanno luogo di elezione di Verdone, ne nasce un altro, con una donna malata terminale, costretta a casa e fan numero uno di Carlo Verdone. Il protagonista si lascia convincere ad andare a trovarla, accompagnato dal fido Max (Tortora, ci torniamo subito, qui in veste di contrappunto comico più che mai necessario), e trova una critica accesissima, invece di un’ammiratrice adorante. La donna praticamente apprezza solo i primi film di Verdone, i classici come “Borotalco” e “Bianco, rosso e Verdone”, sul resto ha da fare solo antipatici appunti. Non solo, dopo quel primo incontro la donna diventa una sorta di stalker per Verdone, che è tragicomicamente combattuto tra il fastidio che prova per la persona e la compassione che deve provare per la malata, rendendo anche chi guarda partecipe di questa sensazione schizofrenica, voglia di ridere e vergogna nel farlo. Un personaggio praticamente perfetto. Tanto perfetto che viene il sospetto sia simbolico: la fan malata e critica è il pubblico, siamo tutti noi, che amiamo Verdone ma tentiamo ancora e sempre di inchiodarlo al sé stesso ispirato di quarant’anni fa? O forse potrebbe essere lui stesso, quella persona prepotente e sempre insoddisfatta, che si avvicina lentamente alla fine ma si incaponisce a tornare sul passato più remoto, a una età dell’oro presunta, tale solo perché è quella in cui tutto doveva ancora succedere?

Il coraggio di mettersi in gioco.

Mettersi in gioco, per una sorta di ‘monumento’ nazionale, non è facile. Verdone lo fa durante tutte le puntate, facendo strisciare sotto la trama e le invenzioni registiche i suoi dubbi su di sé, sul valore della sua carriera, sulla necessità stessa di creare ancora oggi, nonostante qualcuno pensi che abbia dato tutto quello che poteva dare. Generosamente, ci regala la sue incertezze, mettendole in bocca ai tanti alter ego di cui popola la serie, come nella rivelatrice scena di apertura, in cui nella platea del Festival di Cannes tutte le sedie sono occupate da immagini di Carlo Verdone, sorridente e compiaciuto di aver vinto finalmente la Palma d’Oro.

Il personaggio di Max.

Max Tortora fa sé stesso, ma in realtà è anche la personificazione di Carlo Verdone, in uno dei ‘personaggi’ che nega di voler creare ancora. A Max, l’attore e il personaggio, è affidata la parte comica della messa in scena, è lui che regge sulle sue spalle da gigante la quota divertente dello stile di Verdone. Carlo Verdone ha sempre avuto una maschera comica ‘dolceamara’, ma qui è come se si scindesse: a lui rimane la svagatezza tinta di disillusione dell’osservatore della realtà, e a Max tocca tutta la verve, il cinismo buono ma corrosivo, la battuta inevitabilmente offensiva e liberatoria dei personaggi comici più riusciti.

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