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Bilancio in corso d’opera
Non avendo seguito il Festival di Sanremo per molti anni, avevo dimenticato qual è l’unico metodo per trasformarlo in uno show appena appena godibile. Il metodo è, appunto, non guardarlo e accontentarsi della raccolta dei momenti peggiori o migliori pubblicati il giorno dopo, oltre a seguire i commenti sui social. In questo modo si evitano gli estenuanti tempi morti che, alla fine, amplificano la propria dipendenza dallo smartphone, la quale sta forse sostituendo lo zapping come riempitivo delle zone morte.
Mandata in archivio anche la seconda serata, abbiamo capito che la struttura dell’edizione 2021 è formata da una scaletta con i seguenti punti fermi: la gara, i siparietti fra Amadeus e Fiorello, la star co-conduttrice della serata, il revival delle canzoni di una volta, gli intervalli dedicati al momento di sensibilizzazione e attualità. Oltre all’ospite fisso, Achille Lauro. Qua e là altre comparsate come ad esempio, nella seconda serata, Gigi D’Alessio e la sua orecchiabile band di rapper napoletani, oppure Claudio Santamaria e Francesca Barra che ballano il twist mentre lo stravagante Lauro impersona la sua versione 2.0 di David Bowie o Renato Zero. I risultati sono apprezzabili e Achille si ritaglia la sua porzione di personaggio fuori dagli schemi nel cestone-contenitore. L’artista avanguardista ribelle a cui Sanremo in passato ha fatto da nave scuola e che ora, famoso, amato e affermato, torna nelle vesti di ospite speciale. Un copione vecchio come il cucco. Ma fa spettacolo, ed è ciò che conta.
La gara
Per noi i Maneskin continuano ad essere stati i migliori, forse non vinceranno, ma quella combo basso-batteria su cui sferzano la chitarra elettrica e la voce del frontman ci ricordano che può esserci vita oltre la consueta rigidità melodica della tradizionale canzone italiana. Lungi da noi sfigurare una tradizione che parte da Nilla Pizzi. Trasformare il festival di Sanremo in un raduno rock stravolgerebbe certezze e pigrizie. Non sarebbe giusto. La tradizione è tradizione. Fa sorridere comunque che i Maneskin siano in gara con, ad esempio, Orietta Berti: una coesistenza che stravolge la regola delle equivalenze che studiammo a scuola, e cioè che non bisogna mischiare le mele con le pere. Abbiamo notato comunque che una band sul palco ha un impatto maggiore di un cantante in solitaria. I Maneskin nella prima serata e Lo Stato Sociale nella seconda hanno vivacizzato il protocollo. Ma sappiamo bene che Sanremo vive di protocollo su cui apporre qua e là il timbro di scelte vagamente anticonvenzionali e/o modaiole.
Amadeus e Fiorello
Il primo dichiara che la priorità dello show non è accumulare audience, salvo poi insistere continuamente sul numero di visualizzazioni in streaming come nuova unità di misura per giustificare il valore dell’artista in gara. I duetti con Fiorello sono la prova provata della mancanza di ispirazione degli autori. Gli sketch vanno scritti e interpretati. Se sulla discutibile interpretazione possiamo chiudere un occhio – sia perché Fiorello è un bravissimo animatore che ha bisogno del pubblico per interagire e avere quel feedback continuo che alzi il livello di attenzione, sia perché il contesto ideale di Amadeus rimane pur sempre la conduzione del quiz preserale – non si può perdonare la sciatteria degli argomenti intorno ai quali i due malcapitati sono costretti a improvvisare facendo precipitare lo show nell’oblio della noia più insostenibile. Siamo abbastanza certi che esista qualcosa di meglio di quindici minuti passati a elencare i nomi delle dita dei piedi.
La star co-conduttrice
Matilda De Angelis ed Elodie sono state meravigliose. La prima ha retto l’urto quando, speronata dai suddetti autori, è stata a costretta a imbarcare acqua con lo sketch sul bacio accanto ad Amadeus a cui è stato cucito addosso il ruolo di zimbello ‘Beta’. Elodie ha cantato e ballato, e i momenti con lei sul palco, sia il medley che il duetto con Fiorello sulle note di “Vattene amore”, sono stati i più elettrizzanti. La bellezza di entrambe è oggettiva e stratosferica. La loro bravura incontestabile. Elodie ha fatto quello che sa fare meglio, Matilda, che è un’attrice, non ha potuto esprimere la sua vocazione principale, ma ha costretto lo show ad adeguarsi alla sua personalità nei pochi momenti in cui è salita sul palco. Durante e dopo non si parlava d’altro. Al termine delle due serate, le ragazze hanno messo l’impronta al Festival, e speriamo che nei giorni successivi ci sarà qualcuno in grado di imitarle.
Il revival
Loredana Bertè nella prima serata, il trio Fausto Leali, Gigliola Cinquetti, Marcella Bella nella seconda. La differenza è stata evidente. Senza accanirsi, ma è la cruda verità. Mentre la Bertè ha graffiato con le unghie del nostro pop d’annata più impulsivo e feroce, la triade della seconda serata ha mostrato parecchio la corda. Sembrava quasi una concessione al passato remoto con cui il Festival deve celebrare se stesso e i migliori anni della nostra vita. O della vita del Festival. O per essere più precisi ancora, la celebrazione della televisione, quando Sanremo ne costituiva lo spaventoso traino. Nella zona revival ci infiliamo anche Laura Pausini che si è esibita nella canzone vincitrice del Golden Globe e si è divertita con i due presentatori fedeli al loro ruolo: Fiorello l’animatore, Amadeus il direttore del Festival che gioca a recitare la parte di quello che non sa fare niente ma è tanto simpatico. Una versione televisiva del marito che è sempre l’ultimo a sapere le cose. Potete ignorarla se non avete tanto tempo e dovete selezionare i momenti da vedere.
Sensibilizzazione e attualità
L’infermiera Alessia Bonari come simbolo dell’emergenza da Coronavirus, il maratoneta Alex Schwazer alle prese con un’accusa infondata di doping che gli è valsa una lunghissima squalifica dalla giustizia sportiva malgrado il proscioglimento di quella ordinaria. E, nella prima serata, l’appello per la liberazione di Patrick Zaki. Sono parentesi tipicamente sanremesi. Il Festival è contenitore di hashtag già da prima che gli hashtag venissero inventati. È il cestone in cui raggruppare un anno di eventi, avvenimenti, personaggi. Sono fasi dello spettacolo a volte stridenti, collocati tra una canzone a caso, un ospite, uno spot pubblicitario. Se ne sente il bisogno? No. Con tutto il rispetto per i personaggi e i casi. L’intermezzo Talk Show sarebbe più in linea con “Domenica In” tanto per rimanere in zona Rai. Non è informazione, non è intrattenimento. Alla fine nel giudizio su uno show pesa la costruzione dello stesso. Così come in un film pesa, tra i vari elementi, la sceneggiatura. E la costruzione, soprattutto i tempi, di uno spettacolo costituito da cinque serate dalla durata torrenziale andrebbe calcolata nei minimi particolari.
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Due note inquietanti: il carrello dei fiori della prima serata è stato sostituito da un ragazzo taciturno e di bella presenza che va ad aggiungersi a Zlatan Ibrahimovic in quanto a utilità nello show.
Sia nel corso della prima serata che nel corso della seconda, è sbucato uno spot pubblicitario di Netflix. La televisione alla fine è tutta una grande famiglia. O è come il maiale. Volemose bene.