VIAGGI NELLA MENTE, IN PAESI OPPRESSI, DENTRO BUNKER SOTTERRANEI, FINO ALL’INGHILTERRA DELL’OTTOCENTO. ECCO 6 FILM SELEZIONATI DAL NOSTRO ALGORITMO UMANO PER NON SPRECARE TEMPO A SCEGLIERE. PIU’ UN SUGGERIMENTO SPECIALE DAL SAPORE VINTAGE.

 

VOLEVO NASCONDERMI

Elio Germano non fa (quasi) più notizia. Una bravura dirompente, fuori catalogo, la sua che, con “Volevo nascondermi” ci aiuta a sondare gli angoli mentali più reconditi del pittore Antonio Ligabue nel bellissimo biopic di Giorgio Diritti. Un armonioso sodalizio artistico, quello fra regista e interprete (che ha vinto l’Orso d’argento come miglior attore al Festival di Berlino), per mettere su tela il tema del riscatto e della diversità, fuggendo dall’agiografia per approdare altrove. Un biopic agiografico è solitamente fine a se stesso, “Volevo nascondermi” è altro: rimescola le tinte dell’animale Ligabue, un artista – pure lui – fuori catalogo, fuori perimetro – che si dibatteva come una belva ferita nella gabbia delle sue malattie e delle ossessioni, fra reclusioni ospedaliere e attacchi di autolesionismo, con alle spalle un’infanzia e un’adolescenza più disperate di un urlo. Nella mente un groviglio di pensieri anarchici che lo isolarono impietosamente. Nei suoi quadri un’energia cromatica sul punto di esplodere in una chiara richiesta di libertà e amore.

NB:

Come doveroso consiglio di visione vi invitiamo a cliccare sul sito di Raiplay che ha nei suoi archivi lo sceneggiato (una volta si chiamavano così) “Ligabue” di Salvatore Nocita del 1977, con un formidabile Flavio Bucci nel ruolo della sua vita. Tre episodi per approfondire l’esistenza di un artista indesiderato, in perenne conflitto con le sue contorsioni mentali. A dirla tutta, un diamante purissimo nella storia della televisione italiana. Oggi sarebbe nella top 5 di qualsiasi algoritmo.

 

LO STATO DELLA MENTE

Cosa fare se il paziente di una clinica psichiatrica, che all’epoca si chiamava ancora manicomio, è convinto di essere Gesù Cristo? E come procedere se ad affermare di essere in grado di fare miracoli sono in tre? Per scoprirlo seguiamo la storia (vera) raccontata in “Lo stato della mente” (in originale, appunto: Three Christs) che ruota attorno a un esperimento psichiatrico rivoluzionario che, negli anni 60, segnò un passo avanti nella cura delle malattie mentali. Il dottore incaricato del caso vuole superare gli inefficienti metodi utilizzati fino a quel momento (tra cui l’elettrochoc e la somministrazione di farmaci pesanti) e organizza una terapia di gruppo in cui ognuno dei pazienti cerca di smontare la logica degli altri nel dichiararsi Gesù. Un dramedy più che un dramma, in cui la tensione viene smorzata da paradossi e humor. Immaginate di prendere un capolavoro come “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, fategli l’elettrochoc e otterrete “Lo stato della mente”. Un film che gira intorno alla solita domanda banale (che cosa è veramente la normalità?) ma ha il pregio di risollevare con garbo il tema delle malattie mentali avvalendosi di un cast, appunto, normalizzante. Il tipo di cinema mainstream che disinnesca le pulsioni. Se vi piace, potete entrare in terapia di gruppo con Richard Gere.

 

L’UOMO INVISIBILE

Gli adattamenti cinematografici del romanzo di H.G. Wells sono numerosissimi. Si aggiunge alla lista questo reboot, prodotto dalla prolifica Blumhouse e diretto da Leigh Wannell, che guarda con ammirazione ed empatia soprattutto al classico del 1933 di James Whale, e fa la cosa giusta quando si ha tra le mani un classico del ‘monster universe’: lo rispetta reinventandolo, e lo omaggia modernizzandolo, allineandosi con sapienza e coraggio ai ritmi e alle ossessioni attuali. A diventare non visibile è uno scienziato ricco, meschino e manesco, che continua a perseguitare sua moglie dopo che la donna ha deciso di fuggire dalle sue violenze. Lei è Elisabeth Moss e sul suo corpo sono invece estremamente visibili gli abusi subiti. E l’uomo invisibile diventa, dunque, il demone che terrorizza, manipola, controlla. Da cui non ci si riesce a svincolare. Sta nell’ombra, sosta in agguato nel vuoto. Sta ovunque. Spinto dal suo potere e dalla mania dell’onnipotenza. Come solamente i subdoli psicopatici sanno fare. Cinema di genere a più strati, dove la suspense e l’intrattenimento sono di grande impatto. Un’altra mossa vincente da parte della Blumhouse che, al tavolo dei reboot, eclissa molte delle trasposizioni precedenti.

 

EMMA.

La regina degli scacchi Anya Taylor-Joy per la rivisitazione del romanzo di Jane Austen. Una giovane e frivola aristocratica nell’Inghilterra dell’800 gioca a fare il Cupido e si diverte a organizzare la vita sentimentale di amici e conoscenti, spudoratamente noncurante delle conseguenze. Ma chi scherza con l’amore rimane bruciato. E, a volte, persino chi non ci scherza. Scintillante, godibilissimo omaggio alla Austen in cui tutto il decor, dalle acconciature al mobilio, sta al posto giusto. Una specie di scenografia manipolata ad arte così come l’allegra Emma manipola e arrangia il destino altrui. Inno alla vita vista in soggettiva con lo sguardo delle donne, il film di Autumn De Wilde arriva puntuale, sul sentiero tracciato da “The Crown”. I fan dei pasticci dei nobili e dell’argenteria lucidata non possono perderselo perché dietro i raggiri di Emma c’è un mondo intrigantissimo.

 

NON CONOSCI PAPICHA

Uno di quei film indispensabili. Incendiario atto di accusa contro ogni fondamentalismo religioso che reprime la libertà. Nel caso specifico quella delle donne durante la Decade Nera dell’Algeria degli anni 90, dove la studentessa Nedjima sogna una carriera da stilista. Una scelta da disprezzare. Soprattutto perché è, appunto, una scelta da donna indipendente. L’organizzazione della sua prima sfilata viene considerata una provocazione, un peccato di lesa maestà. Perché chi non aderisce alle regole viene considerato un elemento di disturbo. La storia di Nedjima si colloca all’interno di un contesto perfettamente strutturato e descritto dalla regista Mounia Meddour, al quale la protagonista contrappone la sua perseveranza da eroina simbolo di tutte le ragazze algerine.

 

INHERITANCE

Alcuni segreti dovrebbero rimanere sepolti. Così recita la locandina di “Inheritance”, thrillerone di sostanza con la ‘Emily in Paris’ Lily Collins che interpreta la procuratrice distrettuale Lauren. La donna eredita dallo straricco padre un milione di dollari. E fin qui tutto ok. Siamo nell’ambito dell’ufficialità.  L’altro pezzo di eredità la ragazza se lo trova nella proprietà di famiglia ed è un uomo prigioniero in un bunker sotterraneo da oltre 30 anni. Non male come miccia per una storia. La raccomandazione ricevuta dal genitore è tenere quello sconosciuto in vita, ma senza disseppellire il segreto. Lauren rispetta le volontà, ma cerca di far luce sulla verità, facendo domande di cui forse preferirebbe non ottenere la risposte. Criticato per una certa frettolosità con cui giunge all’epilogo, il film è un Revelation thriller che sa distinguersi dalla folla e porta alla ribalta due nomi nuovi: il regista Vaugh Stein e lo sceneggiatore Matthew Kennedy.

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