STAY CLOSE                                                                           voto 5

(Netflix)

 

Appuntamento al buio: i limiti dello streaming e l’utilità  del palinsesto classico.

“STAY CLOSE”, LA SERIE CRIME TRATTA DAL ROMANZO DELLO SCRITTORE AMERICANO HARLAN COBEN, CI SERVE DA SPUNTO PER INTERROGARCI SULLA QUANTITA’ E LA QUALITA’ DELLE OFFERTE DISPONIBILI IN STREAMING. REGISTRIAMO UN PIZZICO DI RIMPIANTO PER LE DRITTE IMPLICITE DI UNA VOLTA E CON DISINCANTATO CINISMO CI PERMETTIAMO DI SFATARE IL MITO DELL’ON DEMAND E DEI FAMIGERATI CONSIGLI DI VISIONE FORNITI DALL’ALGORITMO NON UMANO.

 

In “Stay Close” trovate tutto il repertorio del thriller poliziesco. Nel bene e nel male. Lo schema basico che lo sorregge, quindi: il mistero da risolvere, il movente da scoprire, il colpevole da punire dopo opportuna investigazione. Le fondamenta insomma, il minimo indispensabile che vi spinge con fisiologica curiosità ad arrivare fino all’ultima puntata. Tuttavia sono visibili anche i granelli nel meccanismo, gli inciampi e le ingenuità narrative che, mentre scorrono i titoli di coda, vi faranno fare i conti.

Non in ascensore, ma sul divano.

8 episodi da 40 minuti circa. 320 minuti. Più di 5 ore.

Ne è valsa la pena? Sono stato imbrogliato? Avrei dovuto scegliere altro? E come?

Siamo nella località immaginaria di Ridgewood, ma i paesaggi che vedete appartengono a Blackpool, città a nord dell’Inghilterra con affaccio sul Mare di Irlanda. Megan è una donna ormai matura che si accinge a sposare Dave, con cui ha già avuto tre figli, ormai belli e cresciuti. Prima di pronunciare il fatidico “sì, lo voglio”, tuttavia, decide di tornare sul luogo del delitto, che per lei significa dare una sbirciatina al suo passato di spogliarellista in un locale notturno, il Vipers. Una specie di ultimo saluto, un addio al nubilato in solitaria. Megan mancava dal night club da 17 anni, dalla sua ultima apparizione come lap dancer, quando uno dei proprietari, Stewart Green, rimase barbaramente ucciso. E quando Megan aveva un altro nome: Cassie. Dopo quella notte maledetta decise di scomparire senza lasciare traccia, ma rimanendo nei paraggi. A dire la verità in una città un po’ troppo piccola, troppo a misura d’uomo.  Una spiaggia, un parco divertimenti, e due locali in croce: davvero uno strano modo per rifarsi una vita senza il rischio che nessuno venga a cercarti, considerando i conti in sospeso che hai lasciato dietro di te.

Il delitto, rimasto irrisolto, arrovella ancora le sinapsi del Detective Michael Broome (interpretato da James Nesbitt) che ora ha trovato finalmente il modo per ritornarci su. La comparsata di Megan/Cassie sotto le luci soffuse del Vipers non passa infatti inosservata. E nel frattempo, 17 anni dopo, un altro uomo svanisce nel nulla e da quel momento in avanti, il detective Broome si aggancia a una giustificazione oggettiva per affannarsi alla ricerca di connessioni, ragionare sugli indizi sparpagliati per individuare una logica fra le due sparizioni. Esiste un serial killer? E perché i due presunti omicidi sono stati commessi durante il Carnevale? Intanto Megan/Cassie cerca di barricare il suo presente dai tentativi di aggressione del passato. Non ci riuscirà. Una volta che avrà scoperchiato il vaso dei segreti, non sarà più possibile arginarli. La verità su quanto è accaduto in questo intervallo di tempo emerge con graduale e testarda puntualità. 17 anni dopo. Diciassette. E a pioggia fanno la loro comparsa sotto i riflettori altri personaggi: Lorraine, la magnetica barista del Vipers, Ray Levine, un fotografo ancora innamorato e ossessionato da Cassie (che non ha mai smesso di cercarla, a Ridgewood…) due scagnozzi sadici e stravaganti ingaggiati dal padre di una vittima affinché conducano un’indagine clandestina e parallela agli ovvi brancolamenti della polizia. Spunta anche un avvocato eroinomane che aiuta ‘pro bono’ le ragazze in difficoltà, oltre a un capo della polizia inetto, pavido e disonesto. Tutti, ma proprio tutti i personaggi in campo sono legati l’uno all’altro da vincoli ben annodati; ogni movimento di ogni pedina sulla scacchiera cambia i connotati dell’indagine e la confonde, o la rilancia, all’inseguimento di una traiettoria differente. Tutti compiono una mossa azzardata e inconfessabile, aggiungendo un’ulteriore tessera a un puzzle un po’ confusionario.

L’astuta e convenzionale prassi del cliffhanger, nel caso di “Stay Close”, chiede allo spettatore uno sforzo notevole di sospensione dell’incredulità (a proposito: gli eventi si svolgono serenamente nell’aprile del 2021 e non c’è traccia di mascherine nonostante si parli di carnevale…). I navigati e bulimici appassionati di racconti gialli probabilmente scopriranno la soluzione del rebus alla quarta puntata. È il lato debole di molte serie tv che faticano ad emergere dal minestrone di offerte in streaming: la compattezza. Allungare il brodo, insaporendo la detective story con le spezie di un altro genere o affollandola di colpi di scena è cosa buona e giusta, soprattutto se serve ad arrivare al numero di puntate vergato sul contratto, ma la ricerca del colpevole, le strategie delle forze dell’ordine, le mosse dei criminali devono, dovrebbero rimanere impeccabili. Il puzzle andrebbe completato usando il numero delle tessere nella scatola. Lì sta il bello del puzzle. E del thriller.

Al contrario “Stay Close” ha bisogno continuamente dell’inserimento di altri tasselli, di impantanarsi in una palude di dialoghi esplicativi, iniettando il racconto con flashback o ricucendolo con forzati rammendi di fortuna. Alcuni personaggi smettono di avere un senso, proprio quando pensavi che avrebbero contribuito alla soluzione dell’intrigo. Vedi la donna anziana malata di demenza senile o il detenuto incarcerato ingiustamente. Alla fine, un po’ a spanne e al netto delle moltissime incongruenze, guardando a pagina 46 come si fa con la Settimana Enigmistica, i collegamenti reggono, ma si rimane disorientati e delusi, come davanti a qualcuno che vuole spiegarti una barzelletta.

Alla cifra melodrammatica della serie, inoltre, viene concesso il proscenio finale, convertendo la storia in una mini soap opera, una specie di revenge movie per casalinghe (con tutto il rispetto per le casalinghe, ma anche per i revenge movie) che sbanda di qua e di là, fra il polpettone sentimentalistico e isterico targato Hallmark e un dozzinale poliziesco da preserale.

Sì, è questo il punto d’arrivo di questa recensione/disquisizione. Il binge-watching, le piattaforme streaming con la possibilità di guardare ciò che si vuole quando si vuole, la disponibilità eterna dei prodotti di intrattenimento hanno di fatto ammazzato la struttura logica del classico palinsesto lineare. Non si tratta di nostalgia canaglia. Non si stava meglio quando si stava peggio, per carità. Ma la collocazione di un film, di uno spettacolo o di una serie tv all’interno di un palinsesto ti lascia già intravedere il suo DNA, gli ingredienti della ricetta, e per estensione anche il pubblico a cui è maggiormente destinato. I più scafati teledipendenti sgamano anche il valore del prodotto dall’orario in cui viene (veniva…) messo in onda. L’assetto di un palinsesto lineare classico – tenendo anche conto della tipologia di canale – dispone i titoli nel suo alloggio più adatto, come un drammaturgo che modula e cesella la storia per arrivare al climax della prima serata. Una metodologia che ha lo stesso rilievo di un trailer e, secondo me, un peso specifico persino superiore ai sopravvalutati ‘tag’. La messa in onda di un film in orario pomeridiano o a notte fonda, spesso dice (diceva…) di quel film più di quanto può dire l’elenco di consigli di visione personalizzato.

“Stay Close” non otterrebbe la prima serata neanche se l’alternativa fosse l’intervallo degli anni 70 con le immagini delle pecore oppure l’Almanacco del Giorno Dopo (che a me personalmente manca moltissimo). E lo dico con più di una punta di rammarico, avendo un debole per il nordirlandese James Nesbitt, per questo suo essere un miscuglio imperfetto e autoironico fra Hugh Grant e Paul McCartney. Lui ci mette tutto il mestiere del mondo e la serie si ricompatta in automatico quando lui appare in scena. Ho anche apprezzato l’originale coppia di sadici assassini, vagamente tarantiniani, appassionati di ballo (Lei, Poppy Gilbert, è un bonus di bellezza e bravura), così come l’avvocato eccentrico e tossicodipendente. Ma è il modo in cui è stato assemblato il materiale ad essere deludente. Materiale sceneggiato dallo stesso Harlan Coben che, scarnificando la trama, avrebbe potuto trarne un buon tv movie di 100 minuti invece di cedere alle sirene del telefilm da 8 episodi. Un tv movie post-prandiale o pre-serale che avrebbe, già per l’orario di messa in onda, fissato le coordinate e le aspettative.

Vi informiamo che Harlan Coben ha sottoscritto un contratto con Netflix e 14 dei suoi romanzi sono stati o saranno adattati in film o in serie Tv, con lui come produttore esecutivo. Quindi, se vi è piaciuto o vi piacerà “Stay Close”, potete già trovare “The Stranger” (i tag sono: Suspense, Giallo, Dramma), “Svaniti nel nulla” (Tag: Suspense, Crudo, Cupo) e “Safe” (Suspense, Crudo, Giallo). Quest’ultimo ha per protagonista Michael C. Hall. Di cosa parlano? Di segreti oscuri e sconcertanti, di menzogne che scuotono una comunità, di persone che spariscono nel nulla. Un sacco di verità nascoste racchiuse in un alone di mistero.

Il passato che ritorna.

Che ritorna.

Che ritorna.

Dove nessuno è innocente. Nemmeno Harlan Coben. E nemmeno Netflix.

 

 

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