ELVIS PRESLEY: THE SEARCHER voto: 7,5
(Netflix)
Una squadra di grandi nomi per il più grande dei nomi.
Ci sono gli ‘springsteeniani” Jon Landau e Thom Zimny, rispettivamente nelle vesti di produttore e di regista, dietro il torrenziale e compilativo documentario HBO “Elvis Presley: The Searcher”. E sono le voci dello stesso Bruce Springsteen, insieme a quella di Tom Petty, a cui si aggiungono le testimonianze di Priscilla Presley e di molti altri – Elvis compreso – a raccontare la parabola artistica del simbolo del rock. Un coro di esperti che, senza prendersi mai la scena, accompagna migliaia di immagini, fotografie, frammenti live per un lavoro filologico ammirevole, arricchito da riflessioni sull’uomo e sul musicista, pedinato cronologicamente da Tupelo a Memphis, dalla tenuta di Graceland fino alle Hawaii e a Las Vegas. Chiude il parterre Mike McCready: chiamato a curare la colonna sonora, il chitarrista dei Pearl Jam ha inciso pezzi originali da accostare alle hit di Elvis.
Un documentario che compie una mossa semplice e talmente logica da ottenere un prodotto finale insolito: raccontare l’Elvis musicista, passo dopo passo, a cominciare dall’infanzia e da quella affinità elettiva, quasi morbosa, con il gospel, il blues e il country, lasciando quindi ai margini l’Elvis icona, l’Elvis logo, eclissando la raffigurazione commerciale di Elvis con i dettagli minuziosi che hanno costruito le fondamenta di un artista che aveva un progetto in mente, la premura per portarlo a termine e un talento smisurato per arrivare al bersaglio.
Un’impostazione controcorrente e coraggiosa perché il documentario riesce nel grande risultato di dare una forma all’infinito materiale a disposizione, narrandone la storia con una differente unità di misura, anche a costo di risultare ostico per la lunghezza: oltre tre ore passate a sfogliare un eterno album di fotografie e immagini di repertorio, depennando dalla messa a fuoco il superfluo. Paradossalmente, considerando la monumentalità del risultato.
Ed è evidente la presenza in fase di produzione della moglie Priscilla e dell’amico d’infanzia Jerry Schilling: due figure chiave alla base di un progetto così virato verso l’Elvis che in fondo in fondo ci siamo un po’ dimenticati, a forza di fruirne con troppi scarabocchi di contorno.
Il lunghissimo e contemplativo flusso di parole aiuta finalmente ad afferrare il contesto storico e sociale in cui Elvis mosse i primi passi, accontentando i fan più metodici e accaniti che si trovano davanti a una sorta di genesi del supereroe.
Ed emerge il cuore della questione, anzi l’anima. Che era la vera posta in gioco per il Re del Rock, l’autenticità della sua arte. Pur rispettando l’ordine temporale, il documentario torna spesso al 1968, al concerto televisivo (“The ’68 Comeback Special” – lo trovate su Appletv) che restituì Elvis al suo pubblico, dal vivo dopo molti anni, e non stiamo parlando di anni qualsiasi: erano i Sixties, con le rivoluzioni, i figli dei fiori, i Beatles e sconvolgimenti vari.
Elvis rischiava di arrivare fuori tempo massimo (non si esibiva in pubblico dal 1961), impaurito dal fatto che i suoi fan, che il mondo intero, lo avesse dimenticato, o peggio ancora relegato a attore canterino di discutibili film.
“Quello speciale è impresso nella mia memoria per sempre” dice Bruce Springsteen. E ancora oggi va considerato un evento galvanizzante e avanguardistico nel percorso musicale di Elvis e nella storia della televisione. Fu un trionfo. Fan in delirio, come si dice in questi casi, e classici della sua discografia rimessi a nuovo. Un ‘One Man Show’ con Elvis tiratissimo, ora elettrico ora acustico, sorridente e magnetico. Fu l’evento spartiacque che segnò il passaggio dall’Elvis in bianco e nero a quello a colori.
Perché guardare “Elvis Presley: The Searcher” e… come guardarlo?
“Elvis Presley: The Searcher” è una visione consigliata a chi vuole fare un reboot del personaggio Elvis, per disfarsi delle scorie e dei luoghi comuni che nel corso dei decenni si sono appiccicate alla figura del Re del Rock.
E bisogna guardarlo con pazienza: ma quella genuina, salutare e ‘analogica’, dedicandogli e dedicandovi tempo.
Il tempo necessario a togliere il pesante ingombro formato da un accumulo di informazioni inutili, dalla riproduzione in serie di una narrativa fuorviante su un artista immenso, spesso semplificato in prodotto commerciale o in un’icona data per scontata.
L’ALGORITMO UMANO CONSIGLIA
LIFE
(Amazon Prime)
Per continuare nel solco della mitologia pop nata e cresciuta negli anni 50, non possiamo che consigliare “Life”, il film con Robert Pattinson e Dennis DeHaan dedicato a James Dean. Il divo ribelle, il ‘gigante’ di una generazione, viene raccontato attraverso la storia del fotografo Dennis Stock. Incaricato dalla rivista ‘Life’ di immortalare il nuovo idolo di Hollywood, nel 1955 Stock strinse con Dean una profonda amicizia nel corso di un viaggio indimenticabile da Los Angeles a New York passando per l’Indiana, nella cittadina rurale dove la star di “Gioventù bruciata” trascorse gran parte della sua infanzia. Un film che entra nel mito passando per una porta secondaria per restituircelo vivido e autentico, collocandolo all’esterno del labirinto di citazioni, agiografie e cliché.