The Undoing, Sky
Voto 8 e ½
The Undoing: Le verità non dette (fino all’ultimo episodio)
La miniserie HBO interpretata da Nicole Kidman e Hugh Grant e diretta dalla regista premio Oscar Susanne Bier è arrivata in Italia annunciata come ‘serie evento’. E anche qui da noi ha effettivamente e, caso abbastanza raro, meritatamente raggiunto subito lo status di ‘evento’. Tutti ne parlano, tantissimi lo stanno vedendo, altri hanno in programma di farlo, e chiunque lo abbia seguito lo ha apprezzato.
Avendolo visto tutto insieme d’un fiato, in un binge-watching ampiamente previsto (Sky Atlantic ha programmato direttamente gli episodi in prima visione tutti insieme in una lunga maratona), posso dire che il motivo per cui gli spettatori lo hanno apprezzato è semplice: è bellissimo.
La sintesi dei lanci pubblicitari era stata già capace di avvincere: Grace e Jonathan Fraser, coppia dell’upper class newyorkese, vedono la propria meravigliosa vita sconvolta dal coinvolgimento in un brutale delitto, che porta a galla verità nascoste, che, come da sottotitolo originale, qualcuno ‘avrebbe dovuto sapere’.
Questo ‘canovaccio’ è reso avvincente e cattura lo spettatore dal succedersi incalzante e inesorabile di eventi, dove davvero niente è mai come sembra.
Jonathan, stimato oncologo e soprattutto persona empatica, gradevole e spiritosa, è il sospettato unico per un delitto che ha sconvolto la comunità, quello di Elena Alves (Matilda De Angelis, selvaggiamente incantevole), bellissima giovane donna, outsider appena entrata nell’enclave delle mamme della prestigiosa scuola privata che il figlio dei Fraser frequenta. Il fatto che l’uomo fugga la mattina dopo il delitto certamente non aiuta la moglie a credere alla sua innocenza.
Lentamente ma inesorabilmente la moglie scopre pezzi di vita del marito che non conosceva, e che smontano l’immagine che si era fatta di lui in 14 anni di matrimonio. Grace è una psicoterapeuta che lavora sui rapporti di coppia, che quasi come in una beffa si rende conto che l’unica persona che probabilmente non è mai riuscita a decodificare è proprio il brillante medico che vive con lei e di cui è tuttora molto innamorata: la Kidman rende visibile e quasi palpabile il lento affiorare della consapevolezza del suo personaggio, e il suo tentativo di resistere all’assedio dei fatti e delle opinioni altrui per difendere la parvenza di vita splendida che fino ad allora aveva costruito (e la domanda è come faccia, Nicole, ad essere espressiva e dolorosamente intensa nonostante la quasi totale paresi botulinica del suo una volta bellissimo viso).
Dall’altra parte abbiamo un uomo carismatico e scanzonato, un brillante family man adorato da tutti, che però nasconde una doppia vita difficile da accettare: non è spoiler rivelare che Jonathan era l’amante della donna morta. Non solo: altre bugie, altre scorrettezze inaspettate vengono scoperte su di lui, da Grace e dall’odiosissimo poliziotto che segue il caso, e rivelate dallo stesso Jonathan messo alle corde dal procedere degli eventi. Ma, e qui la scrittura ha il colpo di genio, capire che il tizio fantastico che cura i bambini malati di tumore e che seduce chiunque gli passi accanto sia in realtà uno ‘stronzo’ (come dice il primo avvocato che gli viene assegnato) è abbastanza per decidere che possa aver massacrato a martellate la sua amante?
No, non è abbastanza. In un susseguirsi di colpi di scena a lento rilascio, lo spettatore è spinto a dubitare di tutto e sospettare tutti: nessuno dei personaggi principali è esente dall’oscura ombra del sospetto. Né la moglie tradita e umiliata, né il padre di lei dichiaratamente ostile al genero (un Donald Sutherland veramente gigantesco, capace di ‘riempire’ le scene in cui compare con la sua sola presenza fisica ), né il figlio adolescente innamorato del proprio padre e forse disposto a tutto per difendere la sua famiglia. Negli interni raffinatissimi, sulla malinconica spiaggia della casa al mare, soprattutto lungo i viali di una scintillante New York che continua serenamente a farsi i fatti propri, ognuno racconta la sua verità, mentre Grace passa dalla rabbia all’incredulità alla disperazione in un crescendo che, sempre con trattenuta eleganza e senza scalfirsi lo smalto delle unghie, potrebbe portarla fino alla furia vendicativa.
Nel frattempo il migliore avvocato della città, una solida e smaliziatissima legale che ne ha viste di tutti i colori, cerca di organizzare la difesa dell’imputato che continua tenacemente a dichiararsi innocente. Qui il thriller cede il passo al legal drama, con le due puntate finali dedicate al processo di Jonathan, e soprattutto alle strategie ultra raffinate dell’avvocato che tenta l’intentabile, difendendo quell’imputato che ha tutte le prove contro di sé con l’arma migliore che ha, cioè lui stesso e il suo grandissimo fascino personale. Jonathan viene mandato a difendersi da solo, perché l’avvocato si fida della malìa che l’uomo esercita su tutti quelli che lo circondano, inclusa quella moglie vilipesa e ingannata che sembra ancora volerlo salvare, voler tornare al suo (immaginario) Eden di ‘prima’. E Hugh Grant dà veramente la miglior prova di sé come attore in questo ruolo e in questo momento, in cui il suo volto stropicciato dagli anni e il brillare del suo sguardo malizioso sono in grado di far balenare abissi di ambiguità: mentre alla sbarra perora la propria causa si può credere alla sua innocenza e non crederci nell’arco della stessa inquadratura, confusi da quell’infinitesimale e forse rivelatore cedimento del franco sorriso da pediatra buono.
La soluzione del caso, la conclusione del thriller e del legal drama, ovviamente vanno seguiti e non possono essere rivelati: anche se di confezione extra lusso, si tratta sempre di un prodotto di genere, e in un crime lo scioglimento della trama va preservato intatto alla sorpresa di chi guarda.
Ma la qualità di The Undoing è che questa confezione, pur eccellente come si è detto fin qua, non è tutto. Quello che conta è ciò che viene messo in discussione dalla storia: le passioni, la vita, il male si infiltrano nel conformismo di un’esistenza pubblica patinata travolgendo tutto con le loro ragioni, che la ragione non può conoscere.
Non è un caso che sia Grace che Jonathan siano medici: lei cura la mente e lui il corpo, ma alla fine nessuno dei due è in grado di prevedere e controllare nessuna mente, nessun corpo, neppure i propri. Nessuno conosce sé stesso fino in fondo, figuriamoci l’altro. Mentre il conformismo e il classismo del loro ambiente si ritorce contro di loro (tutti, ma proprio tutti voltano le spalle ai Fraser non appena l’ombra del dubbio oscura i loro avatar), Grace e Jonathan, ma anche il padre di Grace e il loro bambino cresciuto nella bambagia, si rendono conto che il male serpeggia ovunque, sotto qualunque forma. La malattia mentale, i vizi irrinunciabili, le debolezze: in ognuno di noi c’è un seme di tutto questo, anche piccolo, e l’errore è credersi immuni e credere che chi amiamo lo sia. Come in tutti i tempi che la storia ha conosciuto, nella parte alta della società l’immagine è tutto, ma come sempre, è quando l’immagine è scintillante e appare perfetta che bisogna iniziare a dubitare. E qualcuno avrebbe dovuto saperlo…
Credo sia arrivato il momento di abbonarmi a Sky !! Devo vedere questa serie! Devo
Brava!
Come hai fatto finora a vivere senza…
Concordo. E’ uno dei più bei prodotti degli ultimi tempi, irrinunciabile in un palinsesto generale che – per il resto – vede ben poche produzioni veramente originali.
A mio parere il merito va però più al cast – un parterre de rois che altre consimili serie tv neanche lontanamente si sognano – che non all’impianto della storia e della sceneggiatura, che alla fine lascia una vaga sensazione di incompiutezza.
Hugh Grant giganteggia su tutti, in una prestazione sublime, non solo nelle sequenze più drammatiche e concitate. Un campionario di espressività assoluta, dall’inizio alla fine, anche in taluni lunghi e silenti primi piani, riempiti magistralmente da sguardi, cenni e movenze così tipicamente cockney e pur tuttavia perfettamente a tono nell’angolo di mondo tra la Fifth Avenue e Madison che fa da sfondo alla vicenda.
Donald Sutherland fornisce ulteriore prova da purosangue, qualora ce ne fosse bisogno. Pur costretto in un ruolo complementare, riempie ogni spazio che gli viene concesso con l’autorevolezza che promana dalla sua sola presenza scenica e sembra da un momento voler prorompere e rubare definitivamente la scena al protagonista principale.
Matilda De Angelis è una sorprendente Elena Alves: un personaggio insieme conturbante e disperato, stuzzicante e nel contempo devastato dalla passione che le costerà la vita. Dimostra di possedere una spiccata personalità recitativa, grazie alla quale l’intensità ammaliatrice dello sguardo riesce addirittura a non soccombere ai suoi imponenti décolleté. Dal ruolo di Mariele Ventre ne “I ragazzi dello Zecchino d’Oro”, molta strada è stata fatta e la nostra Matilda ha confermato il suo ruolo di giovane, multiforme rivelazione dello schermo.
Da ultima, Nicole “Madame Tussaud” Kidman: a causa degli eccessi cosmetico-facciali che da qualche tempo ne hanno irrimediabilmente condizionato le capacità espressive, pare davvero appena fuggita dal noto Wax Museum di Marylebone Road.
Anzi: forse una critica del genere è impietosa e irriverente per quegli ottimi modellisti della cera, capaci invece di generare somiglianze sorprendenti giocando proprio sui difetti – di pelle o di corporatura – che inevitabilmente caratterizzano anche i VIP più acclamati. La quasi cinquantaquattrenne Nicole, invece, depurata artificialmente da ogni umana imperfezione, è divenuta ahimè l’avatar di sé stessa.
Vedendola sfilare nelle riprese di The Undoing, a sfoggiare splendidi capi di altissima moda (credo adesso si debbano chiamare “outfits”), viene in mente l’etimologia stessa del termine “mannequin”: uno scintillante, pur sempre elegantissimo e attraente manichino, tanto pieno di glamour quanto carente di umana, sincera, calda e naturale femminilità.
A parte quest’ultimo aspetto, la serie va vista senz’altro e, aggiungerei, addirittura ri-vista per poter apprezzare al meglio certe sfumature sulla caratterizzazione dei personaggi principali.
Si tratta più di un thriller psicologico che di un legal drama: come tale soddisferà più i cultori di Sigmund Freud che non gli appassionati di Perry Mason, che – come il sottoscritto – rimarranno forse con quella sensazione di incompiutezza alla quale accennavo in premessa.
Sensazione data dalla mancanza di un guizzo, di una scintilla finale che marca il confine tra un’ottima produzione cinematografica e una indimenticabile.