DOPO LE LODI SPERTICATE, ECCO QUALCHE NOTA DI BIASIMO CHE ABBIAMO ESTRATTO SCAVANDO NEI DIECI EPISODI CASALINGHI E PERSONALIZZATI DI “VITA DA CARLO“. NON SI E’ GIOVANI PER SEMPRE, SI SA, E MALGRADO IL RUGGITO DI VERDONE RIMBOMBI ANCORA NELLA PALUDE DEL CAIMANO, NON VORREMMO CHE IL SUO SGUARDO DIVENTASSE IRRICONOSCIBILE. COME  SUCCEDEVA AL POVERO FABRIS (PRIMO BANCO A DESTRA) DI “COMPAGNI DI SCUOLA”. ‘FAMOLO ANZIANO’… SI’! MA NON TROPPO”

Dalla foce del Tevere alla foce del Mississippi

Nella scena in cui Giovanni, il figlio di Carlo nella finzione, risolve la serata grazie all’intervento salvifico della bella barista di colore, Verdone si lascia abbindolare dal serpente incantatore degli stereotipi. Non solo ci costringe a sorbirci la strimpellata inverosimile del bel ragazzo a modino con “quella faccia un po’ così e quell’espressione un po’ così’ … che avevano loro nei fotoromanzi”, ma non ci risparmia nemmeno la pennellata blues. Proprio quando speri, incroci le dita, e preghi che non succeda, ecco che la ragazza si alza dal divano e ovviamente sfoggia il talento vocale degno di una discendente di Billie Holiday e la grinta da pantera metropolitana di Skin degli Skunk Anansie. Una giovane e carina barista di colore che ha il ritmo nel sangue. Non mi dire. Il tutto incorniciato dallo stonato interior design di un borghesissimo e costosissimo appartamento al centro di Roma. Una sequenza non necessaria, fiaccamente inclusiva, appiccicata nella sceneggiatura con un litro di vinavil.

Show, Don’t Tell!

Il comandamento supremo che ogni sceneggiatore deve rispettare è mostrare le cose, non dirle. I continui riferimenti di Verdone, in corsa per la poltrona di Sindaco, a una città funerea, recalcitrante ai cambiamenti, soggiogata dal suo stesso essere un eterno museo a cielo aperto, era uno spunto interessante, ma Carletto nostro continua ad essere prigioniero di una Roma verdoniana in cui inserire un raffazzonato cameo dell’amico Antonello Venditti, la solita scena all’Eur di prammatica e i facili riferimenti acchiappafan alla ‘magica’ con prevedibile omaggio a Francesco Totti, risparmiandoci almeno la comparsata di quest’ultimo che avrebbe avuto la funzione di product placement. Bella l’idea di parlarci al citofono e di rendere vana la corsa al Campidoglio per motivi calcistici. Un vero graffio Verdone Style ma un’anticchia superficiale. A Roma il calcio è roba seria. Non mancano le vedute di una Roma da cartolina e la strizzata d’occhio alla città notturna e deserta dove scorrazzerebbero solamente le prostitute. Una delle quali, tanto per abbondare con gli stereotipi, si guadagna un provino da attrice. Inoltre, i coatti a Roma ci stanno da prima che arrivassero i cinghiali; il coatto è un personaggio antico, una specie di istituzione, di cui noi romani un po’ andiamo fieri e un po’ ne faremmo a meno – specie all’estero –  ma il coatto si è evoluto nella parlata, nel vestiario, nella gestualità. Verdone ce ne offre una versione rimasta ai tempi di “Troppo forte”. Gli anni 80 sono passati da un pezzo.

I sogni (ad occhi aperti e chiusi)

Troppi e poco curati, non si inscatolano affatto nel resto della trama che proprio in queste parentesi capitombola allentando il filo logico della narrazione e il meccanismo a orologeria della commedia. Il sogno, l’allucinazione, la visione fuori dal reale devono essere solidi e stranianti, utili per accelerare la narrazione aggiungendo nuovi elementi, non condimenti sciapi fra una sequenza e l’altra con Verdone che si addormenta sul letto. La fantasticheria sulla premiazione di Cannes, inserita all’inizio della serie, possiede un senso perché serve ad introdurre il Verdone affamato di una svolta drammatica che possa finalmente regalargli lo status di cineasta d’autore. Al contrario, le evasioni oniriche kitsch da antico romano o nella vasca da bagno mostrano parecchio la corda. A volte, nel dubbio, si può anche non mettere nulla. Ne risente secondo noi il ritmo di una serie che sicuramente non aspira alla dimensione internazionale ma avrebbe meritato una maggiore accuratezza.

Le comparse

A proposito di accuratezza, una delle pecche del cinema italiano più distratto e superficiale sono le comparse che, per un accordo implicito chiamato ad esempio ‘sospensione dell’incredulità’, dovrebbero (devono) sembrare (essere) persone perfettamente collocate all’interno di una scena. Guidate e dirette con lo stesso piglio e la stessa disciplina con il quale vengono coordinati gli attori principali. Invece anche Verdone cade nella trappola di schierare una pattuglia di figuranti deconcentrati, mal disposti, che troveresti in una qualsiasi opera amatoriale. I fan di Carlo che campeggiano sotto casa inneggiando alla sua elezione a sindaco sono credibili come delle persone selezionate a casaccio a cui è stato detto di andare sotto casa di Carlo Verdone a fare le comparse. Con l’atteggiamento da ‘famose un selfie che lo mannamo all’amici’ Questa non sarà Hollywood, ma è pur sempre Cinecittà.

Il patetico credibile ma a cui non vogliamo credere

In diversi casi, ma soprattutto nel finale, Verdone si lascia andare al patetico, alla fiducia un po’ ingenua nella bontà salvifica dei sentimenti, nella consolatoria sicurezza che, alla fine, un senso alle cose si può trovare. Anche chi cerca più domande che risposte, nei prodotti artistici, e anche chi sia per natura scettico e nelle commedie apprezzi più il realismo cinico che il lieto fine, da Carlo Verdone accetta anche questa tendenza al patetismo ottimista. Perché è un approdo, e non un facile assunto di partenza, e perché Verdone è irresistibilmente onesto. Ovvero ci crede, a quello che mette in scena, e questo si avverte ed è contagioso. Forse troppo, ma qui la questione abbandona l’ambito cinematografico per atterrare sulla pista della nostalgia. Noi che lo abbiamo seguito nel suo evolversi, voraci lettori del suo diario personale, fatichiamo a non identificarci con lui e, mentre parla di torpore sentimentale, fumando una sigaretta con vista su Roma, ci appaiono come in un mosaico di radiografie tutti i personaggi contenuti in questo diario. I faccioni di Leo di “Un sacco bello”,  di Mimmo di “Bianco, rosso e verdone” e del Sergio Benvenuti dei Colossi della Musica si sono invecchiati, costringendo anche gli indefessi fan della prima ora a soffocare nel patetismo, imprigionati in una specie di terza età degli spettatori. E rimaniamo col dubbio se questo suo epilogo consolatorio non sia in realtà la nostra Rhodesia della palude del caimano. E noi purtroppo non abbiamo gli anticorpi coi controcoglioni.

 

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