White Hot: L’ascesa e la caduta di Abercrombie & Fitch voto 6,5
(Netflix)
“L’esclusione fa parte della nostra società.”
Comincia così, con una frase da rimbombo pronunciata da uno dei dipendenti dell’epoca dorata di Abercrombie & Fitch, il documentario di Alison Klayman che – come da titolo – racconta la parabola di un marchio simbolo della moda americana, abbracciando il periodo che va dalla metà degli anni 90 fino al 2014, l’anno in cui il maniacale CEO Mike Jeffries lasciò lo scettro del comando a causa delle rimostranze contro la sua politica di assunzione discriminatoria.
DI COSA PARLA: L’ASCESA
Attraverso le interviste alle modelle e ai modelli scelti esclusivamente in base al loro aspetto fisico, con l’aggiunta delle testimonianze di vari curatori dell’ideale di business imposto da Mike Jeffries, il documentario illustra nel dettaglio la politica e la filosofia di Abercrombie & Fitch, basata sulla cosiddetta ‘look policy’: un’azienda di abbigliamento pubblicizzata da giovani americani bianchi, muscolosi e ‘cool’, reclutati sia per essere immortalati nei manifesti, sia come commessi per accogliere a torso nudo i clienti all’interno dei negozi dove ogni dettaglio – dalla musica martellante alla fragranza del profumo spruzzato dentro e fuori gli store, fino all’ultimo manichino – era confezionato nei minimi particolari per attirare chiunque volesse aspirare al canone estetico dominante, quello dei cosiddetti ragazzi più belli della scuola: atletici, popolari, glabri, con gli addominali scolpiti e un viso perfetto.
Il classico ragazzo ‘hot’ dei college americani, con il sex appeal da surfista o da giocatore di football. Fu in effetti quella l’idea vincente: non scegliere delle celebrità nel ruolo di testimonial, ma reclutare i ragazzi più attraenti del vicino campus per creare quindi un immaginario di riferimento confinante con le brame di inclusione dei teenager, cioè il target consumistico di riferimento.
E fondamentale fu la sagacia professionale del fotografo Bruce Weber, creatore di questa immagine sensuale da American Dream (omo)erotico che fu poi esportata nel mondo (Abercrombie & Fitch sbarcò anche a Milano nel 2009 fino alla chiusura del 2020) oltre a una politica dei prezzi che, almeno all’inizio, si adattava meglio alle tasche dei consumatori rispetto a marchi più costosi come Calvin Klein.
Per anni Abercrombie & Fitch prospera grazie anche all’esplosione della ‘mall culture’, la cultura del centro commerciale, che in quegli anni stava diventando il cuore pulsante dell’aggregazione, e dove i capi d’abbigliamento della A&F rappresentavano i simboli della ‘coolness’ nella sfilata quotidiana sotto le luci al neon, fra fast food e scale mobili. Entrare in un affollato negozio di Abercrombie & Fitch equivaleva all’invito a un party superfigo; acquistare una maglietta o un berrettino era come entrare in possesso di un distintivo anti-emarginazione sociale e sentirsi parte di uno status symbol. L’altra mossa da scacco matto di Jeffries e dei suoi collaboratori fu trasformare l’acquisto in negozio in un’esperienza sociale, un happening perpetuo.
Intervistato all’epoca da un giornalista per un articolo successivamente pubblicato su Salon, Mike Jeffries non nascondeva la sua idea:
“Inseguiamo i ragazzi popolari. Inseguiamo il ragazzo americano con tanti amici e un’attitudine di successo. Molte persone non rientrano in quest’immagine e non possono indossare i nostri vestiti. Siamo esclusivi? Assolutamente!”
DI COSA PARLA: LA CADUTA
Il motore della macchina perfetta comincia a singhiozzare con la stampa di alcune t-shirt spiritose ma dalla connotazione razzista nei confronti della comunità asiatica. E’ la prima crepa della voragine che mette a nudo, quasi letteralmente, la filosofia elitaria di A&F. Alle proteste e ai sit-in davanti ai negozi, fanno seguito le accuse di ragazzi esclusi dal reclutamento perché non conformi al modello di riferimento richiesto dall’azienda, oppure relegati a svolgere lavori più umili nei turni di notte per non macchiare l’appariscenza attorno al quale l’intero modello di Abercrombie & Fitch ruotava.
Cambiano anche i tempi. Sebbene la baraonda incendiaria del #Metoo fosse ancora lontana, i precetti di inclusività e di diversità dettati dal politically correct cominciano ad essere integrati nelle politiche di marketing.
Inoltre a colpi di class action o iniziative legali individuali, il caso A&F arriva fino alla Corte Suprema contribuendo a smascherare le subdole minuzie del meccanismo iperselettivo celato dietro la patina glamour, i pettorali oliati e le mascelle squadrate da androidi della carnalità.
Tra patteggiamenti, sentenze, insinuazioni di molestie e tonfi a Wall Street, persino un marchio solido come Abercrombie & Fitch finisce per essere costretto ai compromessi, ma la stanza dei bottoni continua ad essere presenziata dai Wasp. Fino alla resa di Mike Jeffries (che ha rifiutato di concedere un’intervista per il documentario) e al susseguente tentativo di rebranding che arriva fino ai giorni nostri, quando ormai Abercrombie & Fitch è diventato più storia di un fenomeno di costume che cronaca da shopping.
DI COSA PARLA PER DAVVERO: LE CONCLUSIONI
Il documentario-inchiesta di Alison Klayman, abbastanza didascalico e ubbidiente a un format narrativo ormai collaudato, e non solamente sulla piattaforma Netflix, sceglie la prospettiva più comoda. Le risicate concessioni al punto di vista di Abercrombie & Fitch – anche per mancanza della voce dei leader – si diluiscono fino a perdersi nel magma della tesi principale. Il male da una parte e il bene dall’altra. Eppure, forse involontariamente, da “White Hot: L’ascesa e la caduta di Abercrombie & Fitch” sgorgano interrogativi e dubbi, che vanno ben oltre le sue intenzioni.
Il documentario rimette in circolo la riflessione sul concetto di business e di discriminazione sul posto di lavoro.
È vero, per vendere il suo prodotto, A&F costruì a tavolino una fantasia erotizzante, imperniata sul desiderio di appartenenza a un modello estetico estremo. Ma non si tratta dello stesso implicito inganno comune a tutte le aziende che vendono un prodotto? È davvero ingiustificabile come filosofia imprenditoriale se l’obiettivo supremo è il profitto? Del resto, A&F assumeva commessi e non scienziati aerospaziali, e li sceglieva in base a una filosofia che il suo CEO riteneva, a ragione, vincente.
Una possibile risposta arriva in coda al documentario: i marchi così importanti giocano un ruolo cruciale nel plasmare una sottocultura, modellano dei valori di riferimento, finiscono in pratica per dettare una linea di demarcazione tra emarginazione e accettazione. Però è come la storia dell’uovo e la gallina. Nasce prima il fenomeno pop o il contesto sociale in cui tale fenomeno banchetta?
Il boom di Abercrombie & Fitch fu per forza facilitato da un contesto sociale favorevole che solamente ora tenta di cambiare fisionomia. Il messaggio roboante del documentario è talmente semplice da sfociare nel semplicistico. Ora viviamo in un mondo diverso. Davvero? Viviamo in un mondo diverso, oppure gli attuali modelli di business vengono settati intorno a una ricetta in cui gli ingredienti sono più digeribili, ma pur sempre discriminatori? Sicuramente è emersa una nuova sensibilità, almeno di facciata, e anche il mondo della moda, con astuzia, cerca di adattarsi.
Dove cominciano e dove finiscono, tuttavia, i doveri e le responsabilità nel modellare un contesto sociale da parte di un’azienda, che ha pur sempre come priorità il fatturato?
Le domande possono moltiplicarsi guardando “White Hot: L’ascesa e la caduta di Abercrombie & Fitch” che, seppur sbilanciato nella sua prospettiva, ha il merito di infilarsi nelle retrovie di un fenomeno di costume e di un’intuizione imprenditoriale diabolica ma efficace pur nella sua brutale schematizzazione. Una filosofia perversa. Così lontana, così vicina.