SU NETFLIX “TUTTO CHIEDE SALVEZZA”, MINISERIE ISPIRATA AL ROMANZO AUTOBIOGRAFICO DI DANIELE MENCARELLI: POTETE SALTARE LA QUI PRESENTE RECENSIONE, MA NON PERDERE L’OCCASIONE DI GUARDARE QUESTO PREZIOSO ELOGIO DELLA FOLLIA
DA DOVE INIZIARE
Non si sa da dove cominciare, per parlare della miniserie italiana “Tutto chiede salvezza”, gioiello narrativo la cui bellezza pazzoide si pianta nell’immaginario dello spettatore come il ricordo di un’esperienza vissuta, l’incontro con bizzarri personaggi che hanno attraversato davvero la nostra vita per un attimo, quella volta, non molto tempo fa.
Si potrebbe iniziare dalla radice della storia, il libro autobiografico a cui si ispira la serie, il romanzo vincitore del Premio Strega Giovani di Daniele Mencarelli, poeta prestato con successo alla prosa. Possiamo anche parlare del regista Francesco Bruni, sceneggiatore di classe e autore di quasi tutti i film di Paolo Virzì. Possiamo soffermarci sulla bravura del cast, eccezionale nei suoi giovani già lanciatissimi e nei veterani come Andrea Pennacchi, che ormai tutti sanno che, quando è presente, rende ogni cosa illuminata.
Ma c’è qualcosa di ulteriormente ineffabile nei motivi che rendono “Tutto chiede salvezza” così speciale, e che renderà questa recensione particolarmente complicata.
LA STORIA
Daniele è un ragazzo romano che, dopo una notte di coca e discoteca, si addormenta sul suo letto e si ritrova in quello di un ospedale. Psichiatrico, come capisce dai lampi di pazzia che animano le figure attorno a lui e come gli spiega brutalmente l’infermiere venuto a illustrare le regole della casa (Ricky Memphis è l’icona perfetta del professionista frustrato e quindi meschino, a cui una burocrazia ottusa e ingrata sta cancellando – ma non del tutto – l’umanità che lo aveva spinto a scegliere un lavoro di cura: nota di merito per un attore/non attore che forse sa fare solo una parte, ma ormai impeccabilmente). Daniele non ricorda niente, ma lentamente dalla sua coscienza confusa affiorano i motivi per cui è stato necessario sottoporlo a un TSO, un trattamento sanitario obbligatorio, una settimana di ricovero coatto in psichiatria per cercare, siamo nei pressi di Roma, di ‘mettece na pezza’, cioè di sistemare una situazione mentale andata fuori controllo. Intorno a lui, intanto, i pazzi veri. Un catatonico, un depresso, un incendiario col pannolone che sa dire solo Madonninamiaaiutami, un ragazzo che la non accettazione della propria omosessualità ha reso tragica parodia di un trans, un omone ritardato con la forza di un Hulk de noantri. E, nel reparto dei ‘cattivi’, una ragazza di qualche fama, ‘messa peggio de tutti’, che mostra plasticamente come il salto da influencer ad aspirante suicida può essere brevissimo. All’inizio Daniele vuol solo andarsene, schiva i contatti con quella gente fuori di testa, fa ‘il matto da sano’ per cercare di differenziarsi dalla misera comunità con cui è costretto a confrontarsi.
Ma invece è proprio il confronto con l’altro, con l’umanità profonda che rimane sotto la malattia, il sostrato comune a tutti loro che sviluppa la storia, che E’ la storia. Mentre cerca di uscire, scappare, giustificarsi con la famiglia che ha deluso, Daniele trova invece una casa dentro l’ospedale, una nuova famiglia d’elezione, scelta perché somigliante, perché nella pazzia altrui vede la propria, e stavolta sa che non è giudicata ma accettata, compresa, condivisa, trasportata insieme sulle spalle di tutti.
Le scorrazzate di Daniele lungo i corridoi, i tentativi di fuga, i colloqui con i dottori, si chiudono sempre col ritorno a quella stanza lugubre che lugubre smette di essere, e anche tu che guardi hai voglia di tornare lì, per vedere se Gianluca si sta mettendo lo smalto o se Mario sta dando da mangiare a un uccellino che vede solo lui mentre rilascia perle di saggezza e citazioni latine, in uno strano percorso che trasforma un luogo del dolore in un rifugio, inaspettatamente, consolante. La storia del TSO di Daniele, che è quella del vero Daniele Mencarelli, è la storia degli incontri che il protagonista/autore ha fatto in ospedale, di come da un’esperienza disastrosa siano nate delle relazioni che magari sono terminate, ma hanno reso chi le ha vissute più ricco e completo, per sempre.
IL RACCONTO
Lo stile di questo racconto è tanto difficile da sintetizzare in una definizione quanto efficace nella resa, edificante senza volerlo essere, struggente e lirico nella sua scabra e a volte crudele prosaicità.
La serie è molto ‘scritta’, perché è ispirata a un romanzo (e un romanzo di un poeta, cosa che rende la parola fondamentale: il bellissimo titolo per esempio è il verso di una poesia di Mencarelli recitata nell’episodio finale) e perché è diretta da uno sceneggiatore, quindi ha la qualità della sceneggiatura elegante e romanzata, cesellata al millimetro, senza buchi e momenti lasciati al caso. Ma visivamente è invece ‘teatrale’, soprattutto per l’unità costante di luogo, quella stanza d’ospedale in cui succede tutto – con il faro del porto di Anzio come quinta esterna e la fissità del ragazzo-vegetale come drammatico arredo di scena – e per l’impostazione dei dialoghi, recitati in densi botta e risposta o in struggenti monologhi porti come ‘a parte’ della tradizione della prosa italiana. Ma tutto questo non impedisce al racconto di essere anche totalmente ‘realistico’, credibile perché profondamente vero, essendo ispirato a una storia accaduta. I ‘pazzi’ hanno sempre una vena teatrale, ma non per questo sono meno sinceri, e mentre guardi sai che il vero Madonnina sono anni che non si esprime se non invocando la Vergine Maria, e che Mario ha davvero ha passato la vita sopraffatto dalla propria eccezionale sensibilità.
L’empatia cresce incontrollata mentre si guarda, e non si può fare a meno di immedesimarsi, assurdamente, in un’esperienza che capita a un’esigua parte di persone nel mondo. E’ merito dei sentimenti che tocca quello che vediamo? Della bellezza lirica delle idee dei matti? Forse della straordinaria bravura del protagonista, Federico Cesari (già volto eccezionalmente credibile di Martino nella seconda stagione di SKAM Italia), che alterna con una sapienza insensata per la sua età registro comico, drammatico e intimista, fino a rendere il suo personaggio più vero del vero, che a seconda dell’età di chi guarda diventa amico, figlio, nipote, se non addirittura proiezione di sé stesso?
Penso che l’ultimissimo punto sia, appunto, il punto: in questa esperienza che in pochi fanno, ognuno può invece riconoscersi. Perché un principio di follia alberga dentro chiunque, e uno scatto d’ira eccessivo è capitato a tutti, e in molti indulgono ad eccessi, e in tantissimi hanno pensieri sulla vita e su come terminarla che, se espressi, potrebbero farli ricoverare per una settimana in una struttura psichiatrica. Perché la follia è l’altra faccia della medaglia della normalità, ed è tragica ma può anche essere meravigliosa. Come dice Mario a Daniele, raccomandandogli di non farsi spiegare da nessuno la vita, ma di continuare a raccontarsela come la vede lui (e dandogli la chiave di interpretazione della propria vocazione alla scrittura). E come ci mostrano i due inserti musicali delle ultime puntate, fulgidi nella loro totale incongruenza, che mostrano il mondo come i pazzi, alcune volte, sanno vederlo.
La mia interpretazione, personale, dell’attrazione che “Tutto chiede salvezza” ha su chi lo guarda si fonda dunque su questa ‘assurda’ empatia che genera. Come se un TSO fosse in effetti una buona metafora della vita stessa: arrivi in un posto dove non hai chiesto tu di andare, nella maggior parte dei casi non arrivi mai a capire perché ti ci trovi, spesso soffri perché ti senti incompreso, e passi il tempo senza sapere quando te ne andrai. E l’unica cosa sensata che puoi fare lì dentro è legare con i tuoi compagni di stanza, quelli che capisci che sono come te, che anche se in forme diverse hanno la stessa tua follia che sarebbe, quello sì, folle combattere, e invece enormemente saggio condividere, per sentirsi meno soli.
VOTO
L’Algoritmo Umano dà un 8 pieno alla serie tv, ma il voto per me risulta anche riduttivo data la sorta di ‘dipendenza’ che genera nel giro di pochi episodi, rendendo “Tutto chiede salvezza” un’esperienza narrativa stranamente totalizzante, e i suoi personaggi delle figure destinate ad accompagnare per un buon tratto l’itinerario imprevedibile della nostra immaginazione.