• Il ritorno alla regia di Sean Penn, in un biopic ‘all-american’ accanto alla figlia Dylan.

  • Un road movie in bianco e nero con il premio Oscar Joaquin Phoenix.

  • Il tema dell’eutanasia filtrato dal cinema d’autore di Francois Ozon.

  • Un biopic che trasuda blues e jazz per narrare la vita tormentata di Billie Holiday.

  • E infine un viaggio nel marcio di Gotham City con Robert Pattinson sotto il costume del Batman nella versione di Matt Reeves.

Sono 5 le premiere in onda su Sky Cinema e Now a novembre che vi consigliamo di non perdere. Ne parliamo qui sotto.

 

UNA VITA IN FUGA (dal 16 novembre)

A cinque anni dal flop di “Il tuo ultimo sguardo”, Sean Penn torna dietro e davanti la macchina da presa con un film giocato nel comfort di casa. Per due motivi: Sean Penn sceglie, infatti, la figlia Dylan come co-protagonista e sistema il fortino nel mezzo della sua amata-odiata America, di cui ostenta la fascinazione visiva che scaturisce dai crepuscoli marchiati a fuoco e dal romanticismo con cui si approccia al folclore a stelle e strisce che anche gli spettatori meno americanizzati conoscono a menadito. Un porto sicuro ma anche una replica di un cinema che sta perdendo mordente. “Una vita in fuga” racconta la storia di John Vogel, il più noto e inafferrabile falsario della storia americana, elaborando le memorie scritte dalla figlia giornalista Jennifer Vogel. Un padre formidabile ma assente, affettuoso ma fuorilegge che costringe la bambina, poi ragazza, poi donna, a misurare continuamente quale sia la distanza giusta da tenere nei confronti del genitore, (anti)eroe dei suoi sogni, vagando in quel territorio franoso in cui la voglia di redimere il papà diventa una sorta di inutile accanimento terapeutico. Un uomo di cui vantarsi, ma anche un uomo di cui vergognarsi. Il biopic è dunque il mezzo per esplorare un altro baluardo narrativo del cinema Usa, ossia il rapporto tra genitori e figli, che Sean Penn carica di pathos facendosi accompagnare dalla voce struggente di Eddie Vedder e della figlia del frontman dei Pearl Jam, Olivia. Altro padre e altra figlia, come il regista e l’attrice, oltre ai due protagonisti. Un film impetuoso, imperfetto e confuso ma capace di brucianti fiammate emotive.

C’MON C’MON (dal 26 novembre)

Da Los Angeles a New York fino a New Orleans. Il road movie in bianco e nero di Mike Mills (vi consigliamo di recuperare anche “Beginners”, disponibile sempre su Sky e Now) racconta la storia di Johnny, un giornalista impegnato in un progetto di interviste itineranti per raccogliere le opinioni, le paure e i sogni dei giovani americani. Ma il soggetto più interessante, Johnny se lo trova al suo fianco: il nipote di 9 anni, Jesse, a cui sua sorella gli ha chiesto di badare. È la costante condivisione con Jesse che accende il senso profondo di un viaggio alla scoperta di quel legame tremolante che annoda e separa il mondo degli adulti da quello dei ragazzi. Il bianco e nero è la scelta stilistica che sfuma al meglio la dimensione intima del rapporto fra i due, circoscrivendo il luogo dei sentimenti in cui si trovano immersi. E Johnny, da intervistatore, diventa l’intervistato perché Jesse domanda, osserva, pontifica costringendo l’adulto ad aprire e rileggere le pagine di un mondo che egli stesso non ha mai davvero esplorato sotto la superficie. L’alchimia tra i due compagni di viaggio, Joaquin Phoenix e Woody Norman, è il pezzo forte di un film capace di dosare con il bilancino le emozioni, gli stimoli e le sorprese.

 

È ANDATO TUTTO BENE (dal 19 novembre)

La trama è scheletrica: un uomo anziano, colpito da un ictus, chiede alla figlia Emmanuèle di aiutarlo a mettere fine alla propria vita. Su questo scheletro Francois Ozon, adattando l’omonimo romanzo di Emmanuèle Bernheim, compone un intero corpo fatto di organi, tessuti, muscoli, nervi e soprattutto dubbi. Che non sono materia palpabile ma sono ingombranti. Il tema dell’eutanasia gira intorno una complessa e paradossale sfaccettatura della carità cristiana perché toglie a Dio il potere e il diritto di scegliere. Un tradimento, quindi, ma anche un sommo atto di libertà. È un punto di vista estremo che tende all’infinito e solleva sostanziosi interrogativi non solo di carattere religioso. Ozon infila il tema gigantesco del suicidio assistito nel contesto di una famiglia borghese francese, ed è ovvio che ne perlustri con la sua solita sagacia i rapporti interni, irrisolti e in bilico, che davanti a una scelta di tale portata necessitano di un’elaborazione ‘ a babbo non morto’. Bisogna riprendere le misure, fare i conti, mettere un punto. Perché oltre alla figlia Emmanuèle, destinataria della richiesta, entra in gioco anche Pascale, la sorella trascurata. E il padre, che non è stato il migliore dei genitori possibili, continua a dettar legge minando la serenità e la libertà delle due donne. Quindi un atto di libertà diventa un atto di egoismo coi contorni del sadico ricatto morale. Come negare le ultime volontà al proprio genitore? Ma non aspettatevi il dramma lacrime e sangue o il pedante trattato di filosofia a tinte fosche, perché Ozon sa virare verso la commedia, e mettere alla berlina i capricci di una famiglia disfunzionale ma pur sempre benestante. Anche i ricchi piangono ma almeno hanno i soldi per scegliere persino di morire. I poveri, invece, come fanno?

GLI STATI UNITI CONTRO BILLIE HOLIDAY (dall’8 novembre)

La persecuzione del governo americano nei confronti di Billie Holiday comincia nel 1939 quando la dama del jazz sfidò le discriminazioni razziali concludendo la sua esibizione al Cafe Society di New York con “Strange Fruit”, un inno ai diritti civili e una canzone di protesta contro il linciaggio di cui erano vittime gli afroamericani. Un brano eversivo, scritto inoltre da Abel Meeropol, un comunista di origini russe, che accennava a corpi straziati e penzolanti dagli alberi. Corpi dalla pelle nera, naturalmente. Per incastrarla e impedirle di continuare a cantare “Strange Fruit”, il governo americano decise di strumentalizzare la sua tossicodipendenza, facendo della Holiday un capro espiatorio della lotta alla droga. Primo biopic su Billie Holiday dai tempi di “Lady Sings the Blues” (del 1972 con Diana Ross), il film di Lee Daniels ritorna ad essere attualissimo nell’epoca del BlackLivesMatter. Da una parte ricalca il ritratto di un’artista autodistruttiva e fragile nella sua privacy sregolata, che riuscì a diventare un’icona della musica grazie alle graffianti performance sul palcoscenico. Il film si sporge tuttavia oltre, perché sentenzia l’indole ribelle della Holiday, precorritrice della lotta per i diritti civili. L’altro filo narrativo del biopic entra naturalmente nel tessuto sociale problematico sottolineando come in quegli anni in cui il pregiudizio era la norma, un testo come quello di “Strange Fruit” avesse un potenziale talmente incendiario da finire in cima ai pensieri di una macchina burocratica razzista e bigotta. Amalgamando biografia, politica, buco nero sociale e abisso esistenziale, “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” trova il suo motivo di essere nella contrapposizione tra la pittorica eleganza glamour della messa in scena e la volontà di non celare gli aspetti più brutali e scabrosi della vita della Holiday, interpretata da Andra Day, premiata con il Golden Globe come migliore attrice protagonista nella categoria dei film drammatici.

 

THE BATMAN (dal 14 novembre)

Dieci anni dopo la conclusione della trilogia di Christopher Nolan dedicata all’Uomo Pipistrello (QUI potete leggere il nostro speciale sui precedenti Batman), tocca a Matt Reeves riprendere le fila del discorso sul supereroe più iconico della Dc Comics. Non un semplice personaggio, ma un archetipo la cui rielaborazione lancia in automatico un messaggio a tutta l’industria del cinema. “The Batman” è un film dalla lunga e complicata gestazione che avrebbe dovuto portare il nome di Ben Affleck nella doppia veste di regista e protagonista, ma il progetto è deragliato per congiunzioni astrali e questioni personali. Ricordiamo che Ben Affleck è stato Batman in tre film della DCEU (Dc Comics Extended Universe) successivi alla trilogia di Nolan e precisamente “Batman v Superman: Dawn of Justice”, “Suicide Squad” e “Justice League”, tanto per fornire un punto di riferimento ai fan meno accaniti dell’universo multitasking dei cinecomics. Il “The Batman” di Matt Reeves ci offre la versione più infernale e decadente che si sia mai vista di Gotham City, metropoli magmatica, sprofondata nelle tenebre e oppressa da una pioggia quasi incessante. Una città che ricorda la Detroit de “Il Corvo” di Alex Proyas, tanto per cominciare l’elenco di rimandi all’immaginario a cui lo stupendo Batman di Reeves si appoggia. Un Batman immerso in uno scenario noir con tanto di voce off che riporta alla luce, anzi al buio, le trame dei romanzi di Raymond Chandler. Con un protagonista ‘emo’ e tormentato – Robert Pattinson – ispirato alla figura di Kurt Cobain (“Something in the Way” dei Nirvana si infila alla perfezione nella colonna sonora) e che recupera una peculiarità importante del personaggio, ossia la sua abilità investigativa. Batman è il detective migliore del mondo, una vocazione non accentuata nei precedenti capitoli. L’intelletto di Batman sfida l’intelletto del nemico di turno, L’enigmista, che a sua volta strizza l’occhio allo “Zodiac” e al John Doe/Kevin Spacey di “Seven”, entrambi film targati David Fincher.  Nella versione di Matt Reeves, Batman, il supereroe dalla psiche ferita, in perenne conflitto con un trauma infantile da superare, esordisce sulla scena come una minaccia. È la notte che entra dentro la notte. Con la fotografia fenomenale di Greig Fraser (premio Oscar per “Dune”) a conferirgli un’energia iconografica e una potenza lirica che sembrano essere un urlo del cinema stesso, che rivendica con orgoglio la sua peculiarità. In un profluvio di personaggi, “The Batman” apre molteplici piste narrative che verranno sviluppate negli imminenti sequel, ma già questo primo capitolo basta a se stesso e si insinua con prepotenza estetica nell’universo infinito dei cinecomics.

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