La terza stagione della fiction di Rai Play si conferma un successo nazionale, trasversale e transgenerazionale, portando però a compimento una certa tendenza al melodramma che sfocia in uno stile a cavallo tra “Un posto al sole” e Shakespeare
Dobbiamo confermare quanto detto a proposito delle prime due stagioni di “Mare fuori”, cioè che questa serie che racconta storie di giovani detenuti dell’IPM di Napoli si merita il seguito quasi abnorme che ha presso il pubblico. La terza stagione non solo ratifica il successo, ma sancisce la sua qualità ‘sottocutanea’, di prodotto che si infila sotto pelle e lascia tracce durature nell’immaginario. Epica, avrebbero detto ai tempi in cui gli adolescenti ancora si iscrivevano al liceo classico. La terza stagione di “Mare fuori” accentua i tratti di racconto quasi mitico che è costretto ad autoriferirsi e autocitarsi, avendo come missione l’aumentare la massa critica della materia narrativa per sfamare gli spettatori, parenti stretti dei greci antichi che si radunavano nelle piazze ad ascoltare le gesta del prode Achille.
Ma la qualità risente di questo sfacciato autoalimentarsi del racconto? Anche se fare una recensione non è più molto importante, perché importante ormai è solo il racconto, proviamo a tracciare un giudizio-ritratto di questo più recente capitolo, che si chiude con uno spudorato affaccio sul prossimo, ancora da girare e già atteso con trepidazione.
IL RACCONTO
Lo cunto de li cunti, il racconto di tanti racconti, continua in “Mare fuori 3”, con le vicende di nuovi personaggi e le storie pregresse di quelli già noti. C’è la storia di Filippo e Nadiza evasi (debolissima, spiace dirlo, quasi evanescente), c’è finalmente la storia allucinata e devastante di Viola, c’è la vicenda di Edoardo che si sposa e viene tragicamente tradito da chi venera, ci sono le storie di Doberman, Cucciolo e Micciarella che coprono i temi del razzismo dell’abbandono dell’impossibilità dell’outing nella realtà di camorra, c’è la caduta e la redenzione di Mimmo, c’è il dramma della madre di Kubra, c’è la lotta ingrata per il successo dei due giovani trapper e della discografica ‘cessa’ che tenta di fregare entrambi, c’è la vendetta di Silvia… Carne al fuoco per 12 episodi ce n’è, come si vede, ma LA storia che importa è una sola, quella che attraversa il racconto e lo sostiene: come nelle prime due stagioni il nucleo magmatico del racconto era l’amicizia tra Carmine e Filippo, in Mare fuori 3 la forza motrice è l’amore impossibile tra Carmine e Rosa.
L’unica figlia rimasta al boss don Salvatore Ricci, la bella e tostissima Rosa (casting perfetto e attrice convincentissima la giovane Maria Esposito), si fa rinchiudere in carcere per vendicare i fratelli assassinati dai Di Salvo, uccidendo a sua volta il più giovane della famiglia rivale, Carmine detto o’ Piecuro (Massimiliano Caiazzo). Carmine che intanto, nelle due stagioni televisive e in un tempo indefinito nella realtà dell’IPM, si è evoluto rinunciando del tutto alle logiche di vendetta camorristiche, e addirittura praticando un perdono ecumenico che vorrebbe fare proseliti tra i compagni. Oltretutto è diventato di una bellezza esagerata, mutando nel corpo di un uomo maturo che la produzione non si fa scrupoli a mostrare ostentatamente. Tra i due ragazzi ovviamente la scintilla scatta immediata, come un lapillo del Vesuvio: si piacciono e si attraggono, ma Rosa non sembra voler rinunciare alla sua missione omicida e tende a inseguire Carmine impugnando armi da taglio. ‘Tu si’ nu Di Salvo, e io so’ Rosa Ricci’: nonostante le ripetute e accorate prediche amorose di Carmine, e nonostante l’evidente passione che la sta travolgendo, Rosa è legata al padre (che intanto è stato debitamente sparato e lotta tra la vita e la morte) e alle logiche di camorra, e si strugge nell’indecisione.
E qui la stagione prende una svolta, per non più tornare indietro. La storia diventa evidentemente quella di Romeo e Giulietta, è la trama dell’amore tra due giovani reso impossibile dalla rivalità delle loro famiglie, ma che nonostante tutto si sa destinato a divampare a costo di bruciare ogni cosa, anche sé stesso.
Le tappe dell’amore tra Romeo/Carmine e Giulietta/Rosa Ricci sono debitamente avvincenti: le difficoltà, i drammi, le delazioni, il rincorrersi all’interno della gabbia in cui sono rinchiusi e che diventa in questo caso nido sicuro, sostengono il racconto e lo fanno srotolare fluido e appassionato puntata dopo puntata. E di conseguenza anche il tono si adegua a quello tragico che connota il dramma d’amore per eccellenza, quello shakesperiano.
Gli incontri tra i due innamorati si svolgono spesso dietro una quinta, come negli ‘a parte’ teatrali coperti da una tenda, una porta, un andito. La tensione delle situazioni è esasperata dalle musiche struggenti e dalle luci caravaggesche, gli incontri sono interrotti da improbabili interventi e implausibili messaggeri. Teatrale, drammatica, sempre sul ciglio del pianto e della morte violenta, la storia tra Montecchi e Capuleti napoletani catalizza l’attenzione e detta il tono dell’insieme.
Solo che i dialoghi amorosi tra Giulietta e Romeo sono l’apice della poesia occidentale, per secoli sostanza del discorso d’amore. E anche se certamente “Mare fuori” non pretende di fare concorrenza ai discorsi amorosi del ‘Bardo’ inglese, in ogni caso i dialoghi della serie rappresentano un punto debole della costruzione narrativa, che rischiano di raffreddare l’insieme e smontare l’illusione scenica così ben costruita finora.
La semplicità delle parole d’amore tra Carmine e Rosa è resa accettabile dalla giovane età dei due innamorati – l’ingenuità sentimentale in un diciassettenne è più che comprensibile, è meravigliosa – e dalla lingua con cui sono recitati. Il napoletano ha una valenza drammatica e teatrale nella sua stessa natura, e ogni battuta in dialetto è musica e poesia di per sé. Se infatti Carmine dice a Rosa che non riesce a immaginare una storia per loro ‘o pittam insieme, sto futur’, ci concediamo una commozione che non ci sfiorerebbe con l’equivalente italiano, che al massimo può evocare a una pubblicità della vernice lavabile. E qui arriviamo al difetto soprattutto di questa ultima stagione, un limite che ci fa riconoscere che se di evento possiamo parlare, non certo di capolavoro. Gli stessi dialoghi amorosi, che si moltiplicano come un virus in tutte le scene, insieme agli abbracci pacificatori (alla terza situazione che si risolve con un catartico abbraccio si ha la certezza che la trovata sia ormai diventato un pigro escamotage), recitati dagli adulti, in italiano corretto con solo un vago accento partenopeo, suonano falsi e disturbano. Le scene d’amore tra il Comandante e la Direttrice, gli sguardi persi, la luce fessa, la musica di violini, sballottano lo spettatore dalla dimensione shakesperiana a quella della telenovela italica da diecimila puntate, il conterraneo “Un posto al sole” per l’appunto, che ha i suoi estimatori ma sicuramente non ha la pretesa di certificarsi come serie d’autore.
Dalla fiction alla tragedia alla sceneggiata melodrammatica, il viaggio di “Mare fuori” inizia ora a dare un vago capogiro a chi lo compie: pur incuriositi a bestia dal crudelissimo cliffhanger con cui si chiude la stagione, aspettiamo la prossima con un certo timore di ulteriore delusione.