La serie di Rai ambientata nel carcere minorile di Napoli arriva alla terza stagione, e spopola: successo ultra-meritato per una serie bella e ‘buona’, che l’algoritmo disumano non consiglia a molti ma che invece tutti dovrebbero vedere.
Di “Mare fuori” in questo momento si parla un po’ ovunque, sicuramente anche grazie alla presenza del cast sul palco di Sanremo: in Italia solo l’affaccio su piazza San Pietro ha più visibilità del Festival, si sa. La serie è arrivata alla terza stagione, e ora in tantissimi sono corsi su Rai Play a recuperare i primi due capitoli e a consumarli compulsivamente, finendo a parlare e pensare con l’accento napoletano e a chiamare il vicino di divano ‘Chiattill’.
Perché allora l’algoritmo finora non lo aveva consigliato? Perché l’algoritmo di Rai, particolarmente stolido, non ha suggerito a molti di noi ‘potrebbe anche piacerti’ una serie ben realizzata, avvincente, quasi ipnotica nel suo proliferare di mille storie in una?
Perché, appunto, l’algoritmo è stolido, è nato per suggerirti quello che vorresti vedere e che sai già che ti piacerà, ti culla nella famosa e deprecabile comfort zone, ti vizia verso il minimo sforzo disabituandoti alla complessità; così facendo però privandoti del gusto della sorpresa, e annullando la possibilità di provare l’insostituibile piacere della prima volta.
“Mare fuori” è tecnicamente un teen prison drama, o per dirla in cispadano, un dramma carcerario adolescenziale. Quindi l’algoritmo, che analizza dati ma non pensa, non suggerirà mai questo titolo a chi solitamente non guarda programmi ambientati in galera (presumibilmente violenti e claustrofobici) o serie dedicate ai ragazzi (immaginandole scioccherelle e zuccherose). Ci pensiamo noi, insieme al battage sanremese e al folle ma meritorio passaparola social e sociale, a spiegare a chi ancora non si è affacciato all’IPM di Napoli perché dovrebbe affrettarsi a farlo (parlando delle prime due stagioni per non spoilerare niente della stagione in corso).
CI STA ‘O MAR FOR
Innanzi tutto il fatto che i protagonisti siano dei giovani rende sopportabile l’angoscia dell’ambientazione carceraria. La storia infatti è quella di un gruppo di ragazzi e ragazze che sono rinchiusi nel carcere minorile di Napoli, molti per reati legati alla criminalità organizzata, e troppi per crimini gravissimi come l’omicidio o il tentato omicidio. Le storie sono fiction, i dati dell’Istituto Penale per Minorenni di Napoli, purtroppo, sono veri. Nel racconto la presenza di un comandante appassionato ed empatico (Carmine Recano, tenebroso e fascinoso anche se un po’ leccatino per essere un funzionario penitenziario) e una direttrice severissima ma in fondo sensibile (Carolina Crescentini, nella sua interpretazione vagamente rigida come la sua gamba invalida) danno subito la misura di come l’istituto abbia una missione correttiva, e sia non un luogo di contenimento ma la sosta in un percorso che vorrebbe riportare i ragazzi su una via più retta. Un percorso arduo, dato l’ambiente e le circostanze che hanno portato in carcere la maggior parte dei ragazzi, ma ciononostante un itinerario che gli adulti (alcuni di loro almeno) non si stancano di ricalcolare e volgere verso la destinazione giusta.
Il mare fuori, che si vede attraverso le sbarre dell’istituto, non è quindi solo simbolo di libertà, ma lo è soprattutto di speranza: che i carcerati siano giovanissimi restituisce la possibilità che presto escano, e addirittura che abbiano una vita diversa da quella prevista per loro. Questo attenua la sensazione di soffocamento che qualche spettatore sente di fronte alle tante storie ambientate nel microcosmo violento corrotto e chiuso del carcere. Anche l’IPM di Napoli è violento corrotto e chiuso, ma ‘ci sta ‘o mar for’, come si sente nella ormai iconica canzone della sigla. Canzone (interpretata da Matteo Paolillo, nella serie Edoardo) che fa parte di una colonna sonora che contribuisce al successo della serie: scritta dall’autore Stefano Lentini e che vede la collaborazione di Raiz, storica voce del gruppo napoletano Almamegretta.
L’angoscia da ‘fine pena mai’ è quindi in certo modo temperata, ma l’empatia nel seguire le storie dentro il carcere invece è accresciuta proprio dal fatto che a subire le logiche violentissime e spaventevoli della prigione siano dei ragazzi.
PIECURO E CHIATTILLO
Nel primo episodio vengono raccontate attraverso lunghi flashback le storie di due dei ragazzi che finiscono all’IPM, e che saranno poi i pilastri orizzontali di tutto il racconto.
Carmine Di Salvo fa parte di una famiglia di camorristi, ma cerca di rimanere fuori dalle logiche criminali e non commettere reati, tanto da essere chiamato da tutti o’ Piecuro, la pecora, il codardo. Ma come in un incubo kafkiano, come per dimostrare l’ineluttabilità del destino, Carmine si trova a commettere un delitto atroce su una vittima sbagliata, per cui non solo finisce in carcere, rischia a sua volta di essere ucciso per vendetta da fiancheggiatori di famiglie rivali. Massimiliano Caiazzo regala a questo personaggio a cui succede di tutto un’intensità quasi dolorosa, una profondità spesso silente che si trasmette attraverso uno sguardo inizialmente mite che va via via impazzendo di durezza, fino a incutere paura: il suo Carmine è un ragazzo-vittima che si ha voglia di proteggere, ma che sfugge da tutte le parti e in ogni momento ti fa pensare che la vita lo distruggerà nonostante tutto trasformandolo in carnefice, quanto meno di sé stesso.
A bilanciare la plausibile sensazione di estraneità dello spettatore, quella che può fargli pensare ‘a me –a mio figlio- queste cose per cui mi sto commuovendo non potrebbero mai succedere perché vengo da un altro mondo’ c’è la storia di Filippo Ferrari, un talentuoso giovane pianista milanese di ottima famiglia che, durante una vacanza a Napoli, per l’incidente più idiota immaginabile finisce in galera anche lui accusato di omicidio. Lui, le sue mani d’oro, i suoi quattrini diventati inspendibili, i suoi occhi da civetta inorridita da quello che vede finiscono in un girone infernale in cui il senso di colpa che lo affligge inizialmente non è che la risibile punta di un iceberg fatto di paura, sgomento, solitudine e orrore. E qui lo spettatore inizia a vacillare, dato che quello che succede a Filippo, in carcere soprannominato Chiattillo, potrebbe in effetti succedere a qualunque adolescente anche il meglio allevato della batteria. Nicolas Maupas, interprete in ascesa già protagonista nella serie Rai con Alessandro Gassmann “Un professore”, ha il compito di trasformare il bravo ragazzo (il chiattillo, come viene chiamato) destinato a soccombere ai più esperti in violenze in un giovane uomo forte, coraggioso ma che non cede mai ai ricatti della vendetta e del rancore, un compito non facile che porta a termine con grandissima convinzione, e convincendo.
Piecuro e Chiattillo finiscono in cella insieme, e, diversi che più diversi non si può, cementano subito un’amicizia fatta di reciproco supporto, di multipli scambievoli salvataggi di vite, di momenti di paura e di sollievo che legano come nient’altro al mondo può fare, come i carcerati e i soldati sanno bene.
Per chi scrive, il rapporto tra Carmine e Filippo è la ragione e il senso ultimo di una serie che ha pure diverse ragioni e molto senso: il racconto di formazione di questi due personaggi e la loro amicizia che da un certo punto in poi diventa follemente difficile è il perno attorno a cui tutto gira.
Ed è anche il modello per tutte le altre storie. Che sono tante, una per ogni nuovo episodio. Come delle ciliegie avvelenate, che più ne mangi e più ne vorresti mangiare anche se ti fanno star male, le storie di questi ragazzi e di come sono finiti in carcere costringono lo spettatore a continuare a guardare la serie, per capire, per sperare, per vedere come va a finire.
C’è la storia della bellissima zingara che commette furti per essere incarcerata e sfuggire a un indesiderato matrimonio organizzato dal padre tirannico: c’è l’omicidio del giovane rais dell’IPM, quel Ciro figlio di boss che non potrebbe e non può sfuggire al circolo mostruoso della criminalità e per cui il delitto è solo un battesimo del fuoco; ci sono omicidi commessi per difendere sé stessi o per difendere l’onore, per non aver potuto disobbedire a un comando, per vendetta, in pochi casi (uno, eclatante, del personaggio femminile più disturbante in assoluto) per pura cattiveria, ma anche quella dovuta a un disagio non riconosciuto, che forse potrebbe ancora essere corretto e annullato.
La vocazione pedagogica di questo programma, e quella irrinunciabile della nostra televisione pubblica, permea le storie senza però soffocarle. Il tentativo (del racconto e nel racconto) è quello di interrompere la spirale negativa della violenza e del crimine, negare l’ineluttabilità del destino, restituire la speranza attraverso un sentimento, un progetto, una relazione, un’amicizia. Il giovane finito in carcere dice ‘me fa mal a capa, n’arriv a capi’ se so’ nato cca qual è la colpa mia’: nonostante gli agguati nelle docce, lo spaccio, l’imitazione malsana dei grandi, la distorta concezione dell’onore e dei modi per mantenerlo pulito, i ragazzi sono a tutti gli effetti ancora ragazzi, e ancora le loro colpe, per cui stanno pagando, non sono veramente colpe loro, ma di un sistema marcio. Ciro, Edoardo, Nadiza, Viola, Pirucchio, Cardiotrap, Pino, Gemma, Chiattillo, Carmine sono dentro, e cercano di sopravvivere come meglio possono in un ambiente quanto più ostile e difficile si può immaginare, ma non devono dimenticare, e non dimenticano, che ci sta o mare fuori.
Questa serie davvero bellissima è composta dunque da una serie di storie che germogliano le une dalle altre, e forma una lunga sfilata di racconti che sono ognuno un piccolo film, ognuno il romanzo di una sconfitta, di un disagio, di uno scarto sfortunato del destino. Una serie sorprendente, che piace ai grandi e ai piccoli, e che ha quella roba lì che fa di un programma un successo: la capacità di costruire dei personaggi che entrano negli occhi e nel cuore e ci rimangono per un bel pezzo.