Connettendoci ad Unlocked, il thriller sudcoreano che ribadisce il pericolo della frode digitale e del furto d’identità nella nostra epoca rivoluzionaria, ne approfittiamo per aggiornare la nostra cronologia di thriller tecnologici incentrati sullo smartphone, considerato ormai alla stregua dell’uomo nero tascabile del ventunesimo secolo. Anche se c’è chi, come Steven Soderbergh, ha usato lo smartphone come mezzo creativo alla base di due opere tutt’altro che scontate e trascurabili.

Unlocked (Recensione)

Netflix                                                        voto 5

La tecnologia ci rende più vulnerabili? Sì. Unlocked, Il techno-thriller sudcoreano, opera prima di Kim Tae-Joon, si aggiunge al mischione di pellicole che usano la tecnologia come propulsore di crudeltà al servizio di stalker e psicopatici di vario tipo. Tratto dal romanzo Akira Shiga, già adattato dal giapponese Hideo Nakata nel 2018 con il lungometraggio “Stolen Identity”, Unlocked segue le disavventure della giovane Na-Mi, perseguitata da un insospettabile serial killer/serial hacker che le restituisce il suo smartphone smarrito non prima di aver installato sul dispositivo uno spyware, attraverso un furbo escamotage e una finta identità. Il malevolo software permette al maniaco di penetrare nella vita della ragazza, costruendone l’impalcatura di abitudini e amicizie deducibili da chiamate, messaggi, interventi sui social, preferenze e transizioni monetarie. Da una parte una ragazza la cui vita è intrecciata al suo smartphone oltre i limiti della dipendenza, dall’altra la dipendenza voyeuristica di un giovane psicopatico che sembra aver già seminato parecchie vittime seguendo il medesimo metodo.

La storia di Na-mi e del suo persecutore si intreccia, infatti, con le indagini di un detective della polizia che continua a dissotterrare cadaveri nel bosco, scoprendo che l’assassino potrebbe essere suo figlio, con cui ha slacciato i rapporti diversi anni prima.

Nei thriller che contengono già nello spunto narrativo un monito sociale così esplicito, non ci si aspetta per forza una sceneggiatura oliata e fertile di accumuli psicologici. Patto del tutto rispettato da Unlocked, che però, vista la provenienza geografica, finisce per deludere anche sotto il profilo della pura messa in scena. Il messaggio si manifesta forte e chiaro: essere iperconnessi in una sconfinata comunità virtuale non ti salva la vita. Una bordata gettata lì, nei frenetici momenti tipici del prefinale, direttamente dalla voce del killer, quando minaccia di uccidere la sua vittima qualora non venga contattata da nessuno nel giro di 24 ore. Una ragazza con migliaia di amici e followers.

Unlocked, tuttavia, sa creare uno spazio tra fisico e virtuale. Il killer si affida alla sostanza di tangibili block notes gialli formato A4, non rintracciabili on line, per ricostruire la rete sociale della vittima; è inoltre costretto a spaccare lo schermo per accelerare il suo piano diabolico, attirando l’esca in un negozio e costringerla a scrivere manualmente la password. A inchiodarlo alle sue responsabilità, senza rivelare troppo per evitare spoiler, è un trucco che fuoriesce dal mondo informatico. Uno spazio interessante, un immaginario campo di battaglia tra analogico e digitale in cui l’esordiente Tae-Joon si infila con timidezza non riuscendo a scartarsi dalle dozzine di thriller analoghi, né a sfoggiare un pedigree all’altezza dei tanti cineasti connazionali. A parte l’implicita esortazione tecno-sociale ‘telefonata’ sulle insidie che scaturiscono dal voler custodire tutta la nostra esistenza dentro un minicomputer facilmente violabile, Unlocked si riduce al solito duello tra un hacker psicopatico e un vulnerabile bersaglio femminile la cui reputazione digitale è legata troppo preziosamente alla sua stessa vita. E la presenza –  anch’essa analogica –  del laconico padre detective si riduce a una basica funzione narrativa che non approfondisce le potenzialità noir del plot che rimangono effimere come un messaggio su whatsapp. Elimina per me. Elimina per tutti.

 

L’ALGORITMO UMANO CONSIGLIA

Unfriended: Dark Web

(Apple Tv/Google Play)

Se Unblocked si focalizza sulle scomposte conseguenze da pagare caramente nel momento in cui qualcuno si impossessa del nostro smartphone, Unfriended: Dark Web si muove a partire dalla formula inversa: il protagonista trova un laptop lasciato solo e incustodito in un cybercafè. Più pericoloso di un bagaglio abbandonato in aeroporto e contenente scene di reali torture. Diretto dallo sceneggiatore di “The Grudge” e prodotto dagli stessi illuminati di “Scappa – Get Out”, il film oltrepassa il confine che separa il thriller dall’horror, entrando nel buco nero di Internet. Una specie di club esclusivo dove ne succedono di tutti i colori. Un horror che si aggancia ai sottogeneri slasher e found footage, in cui l’occhio della webcam coincide con l’occhio del misterioso persecutore.

Searching

(Amazon/Google Play/Apple Tv/ Chili/ Rakuten)

Una ragazza di 16 anni scompare nel nulla. Suo padre si getta a capofitto nella vita social della figlia a caccia di indizi utili a ritrovarla. Il luogo dell’indagine diventa il laptop dove i video, le foto, i messaggi e i like sono l’abbozzo di un disegno, le necessarie ma insufficienti tessere di un puzzle tutto da costruire. Thriller sperimentale raccontato attraverso i display e i dispositivi elettronici che dominano la messa in scena. Il protagonista è John Cho, che nella saga reboot di Star Trek voluta da J.J. Abrams indossa la divisa di Hikaru Sulu.

Red Rose

(Netflix)

Serie teen horror, o quasi, siglata BBC. Red Rose è il nome di una app scaricata da un gruppo di adolescenti abbindolati dalle sue promesse pubblicitarie. L’anno scolastico è finito, l’estate è sbocciata e con essa un terrore fatto di challenge mortali, ricatti e persecuzioni provenienti da stalker digitali. Perché l’amministratore di Red Rose li tiene tutti sotto scacco. Debitore della genialità di “Black Mirror” con i suoi spauracch tecnocratici, “Red Rose” costruisce intorno all’imprudente download della app l’intricata rete di tipici disagi adolescenziali. Ma va bene anche il contrario: l’orrore digitale si insinua nel web umano, fatto di rapporti interpersonali e familiari aggrovigliati in quel di Bolton, cittadina situata nella brughiera inglese a Nord di Manchester. Cornice perfetta per il binomio apatia e inquietudine.

 

Lo smartphone nelle mani e negli occhi di Steven Soderbergh

Unsane

(Infinity)

Sawyer Valentini è una giovane donna in fuga da un passato traumatico. Vittima di stalking, si stabilisce in un’altra città e sceglie un altro lavoro, ma il fantasma della paura non fa sconti. Decide perciò di consultare uno specialista, ma finisce per essere ricoverata in una clinica psichiatrica contro la propria volontà. Ricoverata non solo tra gli angoscianti corridoi dell’istituto, ma soprattutto in quella zona grigia dove realtà e immaginazione si passano il testimone in continuazione, rendendo difficoltoso misurare la propria salute mentale. Girato interamente con un Iphone, il thriller di Soderbergh è una ricerca estetica a basso budget che ragiona sulla semplice e oggettiva ipotesi che il mezzo usato per costruire la messa in scena già di per sé impone implicitamente una percezione, codifica l’immagine, stravolge gli ordinari punti di riferimento del linguaggio cinematografico.

High Flying Bird

(Netflix)

Dopo “Unsane”, il thriller che omaggia il John Carpenter di “The Ward” e il Samuel Fuller dell’inarrivabile “I corridoi della paura”, Soderbergh riafferra lo smartphone di casa Apple per filmare uno Sport Drama partendo da una sceneggiatura di Tarell Alvin McCraney, vincitore del premio Oscar per lo script di “Moonlight”. A New York, durante lo sciopero del campionato NBA – il cosiddetto lockout – un procuratore che naviga in cattive acque avvia una trattativa per ingaggiare un giovane talento. Soderbergh scoperchia il mondo del basket professionistico e mette a nudo i meccanismi del business di pari passo alla messa a nudo dei meccanismi drammaturgici influenzati dall’uso dell’Iphone. Polifonico, virale, rapido e leggero, “High Flying Bird” è il tentativo di stesura di un ideale manifesto che introduce alternative estetiche e produttive.

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