Money Shot – La storia di Pornhub                                          VOTO 4,5

 

 

La Regola 34 di Netflix e il brodo narcotizzante

Questo documentario con interviste ad attori, attivisti ed ex dipendenti, offre una profonda analisi dei successi e degli scandali di Pornhub”.

Magari fosse.

La sinossi marketing con cui Netflix lancia “Money Shot – La storia di Pornhub”, si aggancia al marchio del noto sito hard, come al più appannato degli specchietti per le allodole, catalogando inoltre il prodotto sotto il generico tag ‘investigativo’.

Premesso che i tag degli algoritmi di ogni piattaforma streaming sono sovente l’output fumoso di un’impigrita negligenza artificiale, e vanno presi con le dovute cautele, possiamo subito dire che dalla frase di lancio andrebbero rimossi i termini ‘profonda’ e ‘analisi’, perché Money Shot non è un’analisi investigativa, né tantomeno un reportage approfondito.

L’analisi fa cilecca e l’approfondimento è un coito interrotto.

Ironicamente, direi, visto che Money Shot è un termine gergale che indica la scena clou di un film, e nello slang specifico della pornografia si riferisce al momento topico dell’eiaculazione.

Invece Money Shot si accontenta di dare tastatine qua e là. Dipinge un rapido quadro generico come farebbe un qualunque servizio da telegiornale, senza l’attenuante di dover rispettare una finestra temporale limitata. Soprattutto non utilizza le controversie che si sono scatenate attorno allo scandalo di Pornhub per mettere sul piatto un discorso più focalizzato sul selvaggio ‘Far Web’. Perché Pornhub è solamente una delle molteplici facce oscure della luna di Internet.

Ed è un peccato perché volendo  percorrere le molte piste solamente accennate dal documentario di Suzanne Hilliger, si potrebbero sviscerare argomenti succulenti e mostrare gli sbilenchi cardini su cui si regge la porta che si affaccia sul mondo del lavoro, sul furto/consumo dei dati degli utenti, fino a svelare gli angoli nascosti del crimine di stampo pornografico e le minacce alla libertà di espressione.

Il problema può essere a monte: nel proliferare di documentari dozzinali sulle piattaforme streaming che si limitano a raccontare fatti noti, facilmente reperibili online. Una gigantesca bolla riempita di contenuti ad alto rischio di oblio, perché la quantità disinnesca la qualità. Ma ci torniamo sopra più avanti.

Esiste un umoristico elenco di regole non ufficiali di Internet, la più famosa, cioè la numero 34, recita scherzosamente: “Se una cosa esiste, ne esiste anche una versione porno”.

Potremmo, parafrasando, affermare che “se una cosa esiste, Netflix ne farà prima o poi un documentario”.

 Di cosa parla Money Shot – The Pornhub Story?

Pornhub è uno sportello aperto a ogni esigenza dei suoi fruitori. Una vera banca dati dell’intrattenimento per adulti che, sulla falsariga degli altri portali dedicati allo stesso argomento, suddivide le fantasie sessuali per categorie. Di proprietà della MindGeek, azienda dagli anonimi uffici con sede a Montreal in Canada, Pornhub ha nel tempo ottimizzato il suo dialogo con i motori di ricerca, appropriandosi di una lunga pila di link in prima pagina su Google nel momento in cui un utente digita la sua fantasia preferita o la sua pornostar del cuore.

Insomma il numero uno. Il sito simbolo della pornografia nell’era digitale. Pensate a un sito hard e vi viene in mente Pornhub. Ed è altamente probabile che dopo una ricerca su google entriate nel suo regno del peccato con un click.

Nell’introduzione incontriamo una coppia di sex worker, Gwen Adora e Siri Dahl, che grazie a ModelHub – sezione a pagamento interna al sito –  sono diventate delle lavoratrici autonome. Come molti colleghi e colleghe hanno pubblicato le proprie performance a pagamento, svincolandosi dai contratti capestro delle case di produzione. In totale libertà artistica hanno incrementato il loro reddito, mettendoci nome, cognome e naturalmente il corpo.

Tuttavia Pornhub, essendo un sito open source, ha offerto a chiunque la possibilità di pubblicare materiale pornografico senza essere rintracciabile e nel tempo questo ha scatenato l’inferno con i suoi gironi fatti di clip di stupri, riprese di rapporti sessuali non consensuali e video pedopornografici. In sintesi, Pornhub ha garantito per un lungo periodo un posto caldo e sicuro per la brutale condivisione di contenuti illegali incassando centinaia di migliaia di dollari in pubblicità.

A un certo punto questa depravazione socio-informatica diventa di dominio pubblico: dal 2020 fioccano le segnalazioni, lo scandalo esplode ed entrano in gioco avvocati, attivisti e giornalisti. Alcuni dei legali rappresentano organizzazioni che combattono la proliferazione del traffico sessuale e della pornografia infantile. Uno sforzo indiscutibilmente nobile, ma dal documentario si intuisce che la matrice oltranzista di queste associazioni, appartenenti alla destra puritana americana, abbia come interesse principale l’abolizione stessa della pornografia. E della libertà di espressione. Perché la pornografia su Internet assomiglia al famigerato canarino nella miniera. Quando muore il canarino, anche la libertà di espressione comincia a non sentirsi troppo bene.

Naturalmente sbuca il solito reporter, questa volta del New York Times, che ci scrive sopra una storia, il clamore monta, gli attivisti cavalcano l’onda e si rivolgono alle società di carte di credito per diffidarle da effettuare transazioni monetarie a bordo di Pornhub. La MindGeek reagisce cancellando l’80% del materiale pubblicato senza tuttavia operare una selezione tra legale e illegale. Come sparare alle mosche con il bazooka. Finendo quindi per cancellare anche i contenuti di sex worker come le suddette Gwen e Siri le quali, pur avendo rispettato regole e principi etici, si sono trovate senza più introiti, e sono state costrette a migrare su OnlyFans. Le più fortunate. Altre sono rimaste senza mutande, e non solo metaforicamente.

  Sì, ma di cosa vorrebbe parlare davvero Money Shot?

Parliamoci chiaro: le multinazionali danno la priorità al profitto rispetto alle persone, in barba a ogni principio etico. Inoltre è in atto una guerra culturale tra la libertà di espressione e chi ne auspica un addomesticamento. Un altro dogma, senza fare troppo i timidi, è che i meccanismi dell’industria del porno, sulla falsariga di ogni industria/azienda basata sulla legge del mercato, produce diseguaglianza, disoccupazione ed emarginazione.

Ma il vero ‘Money Shot’, l’atto conclusivo ma non tanto liberatorio dello scandalo Pornhub è la certificazione del fallimento, etico e legale, del modello Open Source, ossia di un sito basato su un software liberamente modificabile dagli utenti. Una tesi spinosa e un corto circuito che fa traballare la baracca del web. Specie quella a misura di masturbazione.

Tuttavia il documentario della Hillinger gira intorno a questa tesi en passant, imbarcandosi in un mare di parole; preferisce la freddezza dei termini legali invece di zoomare sulla pistola fumante. In pratica trova la spada di Excalibur e non la estrae dalla roccia. Certo, ci lascia più informati sulla faccenda rispetto a prima, ma non più di quanto farebbe un articolo di giornale, perché sono informazioni reperibili ovunque. Da un documentario ci si aspetta una narrazione più audace, nei contenuti e nella forma, e non una dissertazione divulgativa con il ritmo di un grezzo porno amatoriale.

Suzanne Hillinger in un confusionario pastone tocca molti temi, sposta la prospettiva all’altezza delle sex worker per operare una visione dall’interno, interloquisce con gli attivisti puritani, convoca al ballo sceneggiatori, avvocati, giornalisti. Ma di domande, di quelle veramente scomode, non c’è traccia. Inoltre si fa confusione tra presente e passato, tanto che non si evince cosa adesso sia pubblicabile su Pornhub, chi può essere rintracciato, che fine abbiano fatto i video cancellati e qual è l’attuale livello di tutela delle categorie a rischio cioè i sex worker e le persone ignare di essere oggetto di pornografia sul web.

Forse, una docu-serie sarebbe stato il format più adatto, una struttura più espansa per nuotare con maggiore organizzazione narrativa nei fondali di una materia così complicata.

Insomma, Pornhub a parte, la questione in generale comincia a diventare allarmante. Ha smesso di essere semplicemente estetica. Nella moltiplicazione inarrestabile di documentari disponibili (vale anche per film e serie tv, ma questa è un’altra storia) sembra sempre più evidente lo squilibrio fra l’interesse della materia trattata e la qualità narrativa.

È lo streaming selvaggio. La disponibilità 24/7 di contenuti illimitati – alcuni messi in fila dagli algoritmi, altri lasciati a vagare come spettri nella miscela acquosa delle piattaforme –  produce un brodo narcotizzante. Un paradosso in cui l’eccesso di informazione (e di intrattenimento) rischia di diluire la sostanza sia dell’informazione che dell’intrattenimento. Si guarda tanto per guardare. Il caricamento è non-stop. La qualità è un optional. Open Source a parte, la differenza tra una piattaforma di streaming e un sito pornografico è diventata davvero sottile. Il giorno che potremmo caricare i nostri contenuti su Netflix si aprirà la nuova frontiera della masturbazione. 

 

 

 

 

 

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