Il cinema di Carlo Verdone sta tutto nella mano de ‘Er Principe’.
Quando il camionista Mario Brega (alias, appunto, Er Principe) in “Bianco, Rosso e Verdone” fa l’iniezione alla Sora Lella, lo dice testualmente: “Sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma. Oggi è stata piuma”.
E’ una di quelle centinaia di battute nell’inesauribile miniera del cineasta romano che, soprattutto nella Capitale, sono diventate degli intercalari, scorciatoie sublimi che in un lampo costruiscono un ponte nella conversazione, illuminando situazioni e stati d’animo, formando un codice condiviso di sottotesti (la lista completa di Verdone On Demand è in fondo all’articolo).
Il cinema di Verdone po’ esse fero e po’ esse piuma, dunque. Nostalgico ed esilarante, ma dalla cifra crudele e spietata.
Come quando Enzo (in “Un sacco bello”) sfoglia le pagine della sua rubrica, totalmente priva di numeri telefonici, fatta eccezione per ‘Olimpico Stadio – Informazioni biglietti” sotto la ‘0’ e “Stadio Olimpico” sotto la ‘S’ (insieme alla Sarta Adriana e a Sergio, che viene depennato), nella sua fallimentare ricerca di un compagno di viaggio alla conquista delle donne polacche con in tasca penne bic e calze di nylon.
Attorno a lui la desolazione del Ferragosto romano deserto. E una solitudine abissale. Un’inquadratura che sventra ogni ego e fracassa ogni specchio.
Nel finale di “Viaggi di nozze” (‘o famo strano’), a luna di miele conclusa, Jessica e Ivano tornano a casa. Lei se ne va di là: (“so’ stanca!”, pronunciato con l’indolente cadenza della coatta romana), lui rimane da solo, circondato dai regali di matrimonio a palleggiare goffamente in quello che è solamente il primo giorno di una lunga vita di angoscia e noia al termine della loro breve parentesi (borghesemente) trasgressiva.
I grandi autori comici individuano la solitudine e la disperazione, ci piantano la bandiera nera del punto di vista e da lì cominciano a scavare, costruendo una partitura che oscilla fra commedia e tragedia, dove i punti di raccordo sono le minuscole intuizioni geniali. Carlo Verdone ha personalizzato l’eredità della Commedia all’italiana, le folgorazioni amare di Monicelli, le maschere patetiche di Alberto Sordi e ci ha costruito sopra la sua grammatica, la sua visione del mondo.
Pensiamo alle battute di una ferocia inaudita su Fabris e gli altri compagni di scuola (“Puzzava quand’era vivo, figuramose che ce sta dentro quella bara”) nel film omonimo; le cintate fuoricampo in “Borotalco” (‘pure co’ le negre!’) e il successivo incontro impettito tra Sergio Benvenuti e Nadia (Eleonora Giorgi) nel palazzo formicaio di Via Lampridio Cerva, suggellato però dal più ribelle dei baci.
O i continui insuccessi dell’aspirante attore Oscar Pettinari (“A Rambo, riccoglite er giacchetto””), col destino segnato da una faccia troppo buona e schiavo di un personaggio che si è costruito (in Rhodesia, naturalmente, con ‘La palude del Caimano’) e sul quale ha impostato la propria vita mediocre.
Oscar Pettinari è della stessa stirpe di Manuel Fantoni, sta nella stessa comitiva di Bruno Ciardulli alias Christian De Sica, che vende i Sironi con le zinne viola e ripercorre le sue imprese di cartapesta (Lo schiaffo di Anagni).
Sono i momenti in cui sulla scena del cinema verdoniano incombe la cappa della frustrazione ignara. In comune, infatti, i suoi personaggi più riusciti – specie quelli dei primi film – mostrano l’inconsapevolezza del loro fallimento esistenziale, dal quale cercano di uscire annaspando. Fingendo di essere altro. Di accorciare le distanze. Perché a loro la vita ha fatto un buono (“che vordì? – che te la piji nderculo”).
E poi Roma: il contenitore nel quale serpeggiano tic e idiosincrasie, sulle cui strade si pavoneggiano questi grandi ‘cazzari’ bonari; è la città-bambagia che sornionamente accoglie, tollera e incoraggia i vari Ruggero, Enzo, Padre Spinetti (“Acqua e sapone”), Armando Feroci (“Gallo Cedrone“); una città-cabaret, che è essa stessa caratterista. Come la Sora Lella e Mario Brega. Ma la lista di ‘tipi’ sarebbe lunghissima, così come quella delle attrici lanciate e valorizzate nella loro vis comica da Verdone: Claudia Gerini, Laura Chiatti, passando per Natasha Hovey e Paola Cortellesi, fino alla Ilenia Pastorelli di “Benedetta follia”.
Roma è anche la città base dalla quale catapultarsi all’inseguimento di progetti più ambiziosi.
Cosa ha da invidiare “Maledetto il giorno che ti ho incontrato” alle più rinomate commedie sofisticate americane?
E cos’è “Compagni di scuola” se non il nostro italianissimo “Il grande freddo”? un film persino più chirurgico, puntuale e cattivo ma traboccante di battute che si inchinano al tempo che passa (“Guardete com’eri, guardete come sei…Me pari tu’ zio”).
Come Nanni Moretti o Woody Allen, con il suo cinema Carlo Verdone sta scrivendo un lunghissimo diario personale che in ogni pagina decodifica il presente e regala il proscenio ai suoi personali outsider: il coatto nella versione Beta che demistifica la macchietta del macho; oppure il timido che, nel relazionarsi con le donne, a volte vince e a volte perde ma, soprattutto, amaramente, pareggia. O la nevrosi tipicamente metropolitana come condizione suprema per assaporare l’esistenza.
Nel suo sterminato mosaico ci sono musicisti sfortunati (“Sono pazzo di Iris Blond”), docenti disoccupati, pazienti in autogestione (“Ma che colpa abbiamo noi”) cinici presentatori televisivi (“Perdiamoci di vista”). In generale, personaggi che sono costretti a (ri)misurarsi con la realtà disordinata dopo essersi illusi di averla fatta franca rifugiandosi nel matrimonio, nella psicanalisi, in un impiego sicuro ma modesto, oppure in una comune hippie.
Ed invece, eccoli in fuga a bordo di un cargo battente bandiera liberiana che si innamorano di doppiatrici di film hard (“Stasera a casa di Alice”), seguono le tracce di Jimi Hendrix o cercano di mettere le toppe agli errori disastrosi commessi da genitori, fratelli e sorelle, mariti, mogli e figli.
Un catalogo di mestieri sociali che i personaggi di Verdone sono palesemente impreparati a svolgere, e sui quali vigila uno sguardo pacato ma severo, che sa esorcizzare con una risata liberatoria ma anche essere implacabile e lapidario.
E come nei grandi romanzi a puntate, ci si chiede poi che fine abbiano fatto tutti quanti?
Che è successo a Mimmo dopo che sua nonna è morta nella cabina elettorale? Come è stata l’estate di Leo a Ladispoli dopo la sua avventura con Marisol? Sergio Benvenuti (…dei Colossi della musica…) e Nadia sono diventati amanti? Dietro ogni condanna c’è un filo di ottimismo. Dietro ogni lieto fine la paura che il nuovo ruolo sociale acquisito possa degenerare di nuovo. Ai personaggi di Verdone la vita ha dato cinque carte e la possibilità di cambiarle, una volta sola. Spesso si siedono a giocare ma perdono il piatto contro una coppia di nove. E’ questa loro esitazione e paura che li rende tremendamente umani: “Ma come? famo er pokerino, famo er pokerino e poi co’ tre ganci te cachi sotto?”.
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