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voto 8
La musica, tanto per cominciare. Oltre 130 brani disseminati in 10 episodi, spaziando dal rock all’afrobeat, dal blues all’hip-hop per formare una playlist capillare (la potete trovare su Spotify) con cui riportare in auge il romanzo omonimo di Nick Hornby: un piccolo totem letterario, un classico contemporaneo stampato nel 1995, la lettura del quale costituisce ancora oggi una sorta di rito di passaggio e di autoanalisi per una certa tipologia di homo sapiens occidentale.
Dopo la Londra del romanzo e la Chicago dell’adattamento cinematografico con John Cusack uscito nel 2000, la serie sposta il negozio di dischi Championship Vinyl nella stilosa e hipsterizzata Brooklyn del 2019 con i suoi interni in stile industrial, dove tutto sembra sempre figo e scaciato, da qualsiasi lato lo si guardi. Come scaciata e perfettamente collocata è la protagonista, Robyn Cook, interpretata da Zoe Kravitz che possiede un DNA contenente le informazioni genetiche essenziali per essere ‘cool’, essendo figlia di Lenny Kravitz e Lisa Bonet.
Lo scarto principale rispetto al romanzo è quindi il cambio di gender: non c’è un uomo ma una donna a fare i conti con gli affaticamenti amorosi e un precoce bilancio esistenziale del proprio percorso romantico. “Perché tutti mi lasciano?” si chiede Rob mentre apre il suo negozio di dischi e si prepara a mappare il mondo suddividendolo in Top 5 insieme ai suoi inseparabili colleghi e amici Cherise e Simon. Così come nel libro e nel film, l’innesco è dato dalla rottura con il partner. Un acciacco da lenire cercando di capire cosa non abbia (mai) funzionato nelle sue relazioni sentimentali. Rob va perciò a ritroso nel passato, stilando la lista delle 5 più importanti fregature amorose collezionate nella sua vita. Tra le quali c’è anche una donna: debito da pagare all’abbraccio tentacolare e alla inclusività forzata del politically correct. E decide di chiedere direttamente a loro come mai all’epoca la loro storia non funzionò.
In dieci episodi accompagniamo Rob dentro appartamenti e negozi, fra i club e le strade di una Brooklyn gentrificata per capire cosa c’è che non va in lei. Che poi, stringi stringi, non c’è niente che non possa essere curato fumando un paio di sigarette e sorseggiando un whisky liscio mentre si ascolta una playlist di canzoni meditabonde. E sebbene la serie ceda ogni tanto alla tentazione di percorrere i viali delle zuccherose commedie romantiche, a prevalere è questo delizioso e infallibile glamour costruito a tavolino che non racconta solamente la storia di Rob, dei suoi fallimenti romantici. Racconta uno stile, un modo di essere e un archetipo.
L’archetipo è il personaggio vagamente narcisista e irrisolto, ma senza troppi squilibri patologici né danni gravi procurati a se stesso e agli altri, alla costante ricerca di affinità elettive a partire dalla condivisione di riferimenti culturali pop. Siano essi la musica, la narrativa o il cinema. Personaggi infettati dal morbo della sociopatia, ma è più un tratto caratteriale che un reale disadattamento. Così come quel tocco di disfunzionalità benigna con cui identificarsi, che risulta comodo e distensivo. Personaggi svagati e malinconici, abilissimi nel coniare pensieri circoscritti attorno al proprio egocentrismo.
“High Fidelity” è un prodotto in cui ogni grinza è studiata nel minimo dettaglio: una serie che rimane fedele al mood originario, tarato nelle pagine scritte da Nick Hornby, e si immerge in una calcolatissima estetica Indie che nel corso degli anni si è sempre più affinata. Adattata ai tempi che corrono, la serie è praticamente ineccepibile nel restituirci la nostalgia nascosta nei solchi del vinile in attesa di una puntina che ne riproduca il fruscio latente. Un assetto vintage su cui è stata montata la frenesia dell’epoca digitale che Rob e il suo circondario di amicizie piegano alla propria esigenza di narrarsi. Il costante rivolgersi di Rob alla telecamera con il classico abbattimento della quarta parete non è semplicemente una scorciatoia narrativa, ma il disvelarsi di un modo di intendere l’esistenza sentendosi sotto osservazione. Non spiati ma in totale e naturale condivisione. Per citare la scrittrice francese Anais Nin: “We write to taste life twice, in the moment and in retrospect”: “Noi scriviamo per assaporare la vita due volte, al presente e a posteriori”. Una frase che per estensione può essere cucita su misura e indossata da ogni forma d’arte, da sempre. Ma che per prodotti come “High Fidelity”, in cui Rob ci offre il suo diario intimo di caotiche consapevolezze, sembra proprio calzare a pennello.
LA TOP 5 ROCK DELL’ALGORITMO UMANO:
5. Singles – l’amore è un gioco (Apple, Google Play, Chili)
Colonna sonora grunge e comparsate di Eddie Vedder e Chris Cornell per uno dei manifesti della Generazione X, diretto dal regista rockettaro Cameron Crowe.
4. Sing Street (Amazon Prime, Mubi)
Il furore new wave nella Dublino di metà anni 80 attraverso l’ascesa di una piccola band scalcinata e amatoriale. Rock proletario e una storia d’amore dal regista di “Once”, John Carney.
3. The Commitments (Amazon Prime)
Ancora Dublino, dal romanzo di Roddy Doyle per la regia di Alan Parker. Un serbatoio di strepitosi pezzi soul. “Perché gli irlandesi sono i neri d’Europa, i dublinesi sono i neri d’Irlanda e noi siamo i neri di Dublino”
2. Velvet Goldmine (Amazon Prime)
1.
QUASI FAMOSI-ALMOST FAMOUS (Apple, Rakuten, Chili, Google Play)
Sono gli anni 70, William ha 15 anni, scrive per Rolling Stone, va in tour al seguito di una band, perde la verginità con una groupie. Scopre la vita, il rock, il sesso, le complicazioni del giornalismo mantenendo intatto il suo sguardo stupito e appassionato sul mondo. Scritto e diretto da Cameron Crowe, premiato con l’Oscar per la sceneggiatura, “Almost Famous” è un racconto di formazione (e un rito di iniziazione) scritto da un amante del rock. Philip Seymour Hoffman è il cronista cinico (“Io sono uno sfigato, sto sempre a casa”), Kate Hudson la dolce e sensuale Penny Lane. Frances McDormand la madre apprensiva.