Il Bel paese truce
A CLASSIC HORROR STORY VOTO 7
(Netflix)
PREMIATI PER LA MIGLIOR REGIA AL FESTIVAL DI TAORMINA, CON “A CLASSIC HORROR STORY”, ROBERTO DE FEO E PAOLO STRIPPOLI FIRMANO UN FOLK HORROR CHE AFFONDA LE RADICI NELLE TRADIZIONI POPOLARI ITALIANE, MA DAL RESPIRO INTERNAZIONALE. I DUE REGISTI SI E CI DIVERTONO CITANDO MOLTI CULT DEL PASSATO, GIOCANO SAPIENTEMENTE CON I CLICHE’ E COSTRUISCONO UN’IMPRESSIONANTE ESTETICA DEL TERRORE.
Sfruttando una app di carpooling, cinque persone a bordo di un camper si inoltrano nell’entroterra calabrese. Ci sono una giovane coppia di stranieri, un videomaker appassionato di cinema, uno scontroso medico in fuga da un’azione colposa e una ragazza diretta nel paese natio per un’interruzione di gravidanza. Finché un incidente non li costringe alla sosta forzata in un’area isolata e inaccessibile, dove il gruppo finisce nella morsa di raccapriccianti rituali pagani, praticati dai seguaci di una leggenda che risale al XV secolo, ma i cui tentacoli arrivano e resistono, banchettando martiri, nell’Italia contemporanea.
Della moltitudine di sottogeneri che scendono a grappoli dal genere horror, il cosiddetto folk horror si intrufola negli anfratti spaventosi e inespugnabili di villaggi ancora dediti a culti superstiziosi e sanguinari, nel mezzo di comunità deformi e malsane in cui il fiore del male germoglia a distanza di sicurezza dalla cronaca.
Si potrebbero scomodare molti titoli per dare un’idea del sottomondo sordido e ancestrale in cui De Feo e Strippoli hanno ambientato la loro storia. Il folk horror torna ciclicamente a rivitalizzare il genere, raccontando anomalie raccapriccianti esterne al contesto metropolitano. Oltre ai recenti “Midsommar” e “November” e naturalmente all’eccellente “The Witch“, i riverberi arrivano fino agli anni ’70 con i britannici “The Wicker Man” e “La pelle di Satana“. Rimanendo a casa nostra, il pensiero va naturalmente a “Non si sevizia un paperino” di Lucio Fulci, ma faremmo torto a molte altre pellicole che pasteggiano con l’humus delle credenze popolari, penetrando dentro contesti che sembrano perennemente in sospeso in un tempo indefinibile, e sommersi in un passato in cui divampa la superstizione e si esercitano torture indicibili.
De Feo e Strippoli, coadiuvati da un gruppo di ispirati sceneggiatori e da un direttore della fotografia, Emanuele Pasquet, che riesce a rendere abbagliante questa discesa negli inferi, hanno il grande merito di non lasciarsi attrarre dal fantastico e dalle sirene del soprannaturale, rimanendo felicemente (e quindi paurosamente) agganciati alla forza di gravità dell’horror più asfissiante, in cui gli accadimenti perturbanti rilanciano l’esistenza di una porzione di paese alternativa al modello dominante.
La coppia di registi parte e rielabora cliché e luoghi deputati che ben conosciamo per poi avventurarsi in un magma di citazioni da tipico cinema postmoderno, finendo anche per farsi attrarre dalla strega del metacinema. Un ribaltamento di prospettiva non incoerente con la dichiarazione di intenti fornita dallo stesso titolo, ma che finisce per ammorbidire l’impatto dell’angoscia pura mostrata fino a quel momento e per scolorire il marchio del terrore. Del resto qualsiasi scorribanda nel territorio metalinguistico deve implicitamente fare i conti con quanto inciso su quella tavola dei comandamenti che fu “Scream” di Wes Craven, sebbene siano passati più di 20 anni.
Ciò non inficia tuttavia la squisita qualità del prodotto e non lenisce la traumatica odissea dei cinque protagonisti, intrappolati in un bosco impenetrabile e impervio in cui alla paura dell’ignoto si sostituisce l’oppressione del macabro in tutto il suo lento e implacabile disvelarsi.
Il bosco inaccessibile, dunque, è uno dei luoghi deputati, insieme alla casa, maledetta sì, ma non per cause demoniache. Peggio ancora del diavolo, che è un’entità soprannaturale, ci può essere una leggenda: nello specifico quella di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, coloro che simboleggiano i tre clan della malavita italiana: la mafia, la camorra e l’ndrangheta. L’horror si fa quindi raffigurazione di un mistero e al contempo mappa di un culto del male radicato fra gli abitanti di una zona sepolta nelle viscere dell’Italia Meridionale. E che in una delle sequenze più ansiogene del film sono riuniti in una lunga tavolata all’aperto sotto il sole rovente della Calabria.
Oltre al bosco e alla casa, c’è il camper, simbolo del road movie avventuroso che trascina i malcapitati in un labirinto oscuro coi suo meandri truculenti, affollati da creature mascherate e spietate che praticano la mattanza più disumana. Fra le pellicole citate c’è sicuramente “Hostel” e un po’ tutto l’Eli Roth spericolato e truce. E potremmo aggiungere le trappole grottesche tipiche di M. Night Shyamalan, o certe suggestioni che ci regalarono le prime stagioni di “True Detective” e di “Wayward Pines”, senza dimenticare le fondamentali irruzioni di Tobe Hooper tra le malformazioni psicofisiche dell’America più nascosta.
Sono citazioni che arricchiscono il film di De Feo e Strippoli di quella sostanza internazionale su cui però prevale orgogliosamente un viaggio nell’habitat nostrano, con i suoi territori inesplorati. Meglio quindi, oltre al già citato Fulci, far riferimento al gotico padano del Pupi Avati più ispirato, alla cui ossessione per i risvolti sinistri ed efferati dei rappresentanti della Chiesa, si sostituisce la descrizione di un mondo parallelo con le sue regole e i suoi ferventi affiliati.
Nel film si mozzano orecchie, si tagliano lingue, si cavano gli occhi, si sfondano piedi. Si spalanca il varco che conduce a una miniera d’oro di spunti narrativi che nulla hanno da invidiare alle fantasie più losche e sanguinarie di cui è capace il cinema anglosassone e orientale.
È la credibilità dell’estetica uno dei punti forti di “A Classic Horror Story”; un pregio non sempre rilevabile in tanti horror nostrani e forestieri, così come la coerenza drammaturgica, seppure al netto di alcune soluzioni prevedibili. E l’uso dissonante della musica, poi, con “La casa” di Sergio Endrigo impiantata sulla scena della tortura è un surplus di inventiva che non passa inosservato.
Nello spalancare la cantina degli orrori, De Feo e Strippoli fanno riferimento (un po’ frettolosamente) alla spettacolarizzazione della morte e alla pornografia del dolore. Azzardando altre interpretazioni, pensiamo ai protagonisti di questo viaggio: tutti i presenti a bordo del camper, alla fine, chi per un motivo chi per un altro, cercano la protezione e il rifugio del focolare domestico, oppure si apprestano a partecipare a un matrimonio, a una tradizionale festa della famiglia carica di folclore e di usanze rimaste intatte nei secoli. Si dirigono, quindi, o tornano in mondi da loro stessi snobbati per troppo tempo, osando sfidare un antro geografico dimenticato, in cui nel frattempo ha proliferato liberamente il male.