After Life                                                                                          voto 8

(Netflix)

VIVI E LASCIA MORIRE

DICEVA CHARLIE CHAPLIN: “CREDO AL POTERE DEL RISO E DELLE LACRIME COME ANTIDOTO ALL’ODIO E AL TERRORE. DOBBIAMO RIDERE IN FACCIA ALLA TRAGEDIA, ALLA SFORTUNA E ALLA NOSTRA IMPOTENZA CONTRO LE FORZE DELLA NATURA, SE NON VOGLIAMO IMPAZZIRE”.

 

Con la terza stagione di “After Life”, Ricky Gervais conclude l’elaborazione del lutto di Tony, giornalista di mezza età di Tambury, cittadina fittizia a sud dell’Inghilterra, straziato dalla prematura scomparsa della moglie Lisa, sconfitta dal cancro, di cui continua a guardare i video memorizzati sul suo laptop. Per rivivere al meglio il ricordo, in un processo insistito di negazione, ma anche per sondare, forse inconsapevolmente, immagini e parole alla ricerca di un lampo di luce utilizzabile al presente. Il video testamento di Lisa gli serve per tirare avanti, aprendo un temporaneo varco d’uscita dalla depressione e dalla voglia di suicidarsi.

Lo circondano i suoi colleghi, gli amici, i personaggi emarginati e disadattati della città. Una comunità di gregari che vengono trattati senza paternalistici tentativi di inclusività. L’eco che sentite quando Ricky Gervais si incunea nel trash non proviene tanto dall’urlo dei Monty Python, quanto da produzioni minori e a noi misconosciute come “Little Britain” o “Bottom”. I personaggi sono degli zero che sperano di trovare un ‘1’ a cui affiancarsi per assumere un valore. Come Kath, la zitella senza speranza, oppure Brian, il delirante accumulatore seriale umiliato sessualmente dalla moglie. C’è poi lo scalcinato produttore teatrale Ken, l’adolescente obeso James che sogna di fare l’attore. Oppure Pat, lo svampito postino che si innamora della prostituta Roxy.

Sul finire della terza stagione arriva finalmente il momento dell’accettazione per Tony, il raggiungimento della consapevolezza che è necessario vivere insieme al dolore senza lasciarsene sopraffare. E la consapevolezza che non esistono svolte magniloquenti o scappatoie di comodo come l’inflazionato concetto di resilienza. Il percorso di elaborazione è lungo, ripetitivo, complesso e pieno di trappole. Bisogna ricollocarsi dentro il solito slot e venire a patti con una transizione costante che conduce all’attimo successivo, e poi al giorno dopo. E a quello dopo ancora. E poi alla fine.

Ricky Gervais, che la serie l’ha scritta, diretta e interpretata, raggiunge nella terza stagione il giusto equilibrio infilando nel contenitore la rabbia contro il destino, il sarcasmo sprezzante, il pathos, e naturalmente il suo proverbiale humor con le sue schegge di pura schiettezza e cattiveria, oscillando tra le vicissitudini spesso degradanti dei suoi personaggi fino alle riflessioni esistenziali sui massimi sistemi, passando per l’osservazione di un mondo esterno che ha raggiunto un tale livello di presunzione da dover essere solamente deriso.

Una fiction che si allinea per tempi ed estetica alla vita stessa, replicandone la routine, le sfumature e le latenze. Come un monaco che si è esonerato dai rapporti sociali soffocanti, ritagliandosi una personale clausura, Tony fa sempre le stesse cose. La visita al cimitero dalla moglie, dove su una panchina dialoga con la vedova Anne; le soste alla clinica dell’amica Emma continuano anche dopo la morte di suo padre. La donna vorrebbe costruire una love story con lui, ma Tony è troppo ostile e scoraggiato per pensare di tradire la moglie legandosi a un’altra persona.

Insieme al collega Lenny, Tony continua a scovare casi umani da immortalare sulle pagine del Tambury Gazette. Porta a spasso il cane, gli dà da mangiare, si siede sul divano per scolarsi una bottiglia di vino, riceve la posta, va in redazione. Parla, pontifica, odia, fa l’autopsia al non senso della sua esistenza.  E continua soprattutto ad utilizzare il suo superpotere: dire tutto ciò che vuole senza inibizione. Come Gervais è solito fare nei suoi spettacoli, ma a differenza degli show non c’è la preparazione che conduce al climax e quindi alla punchline. In “After Life” dramma e commedia scorrono intrecciandosi in un flusso senza onde.

Di nuovo, parafrasando ancora Chaplin: “il comico ci aiuta a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. L’umorismo evita di essere schiacciati dalle vicissitudini della vita perché attiva il nostro senso delle proporzioni. Trovando l’insignificante in ciò che sembra pieno di importanza e l’assurdo annidato in ogni angolo dell’esistenza”.

L’abilità di Gervais risiede nella gestione del riso (nella sua versione più cinica e sinistra) e della malinconia, sbordando anche oltre i confini della retorica. Tutto sta nel senso della proporzione.

A smile and a tear. Un sorriso e una lacrima. Accumulare una concitazione di emozioni e poi bombardarle con il sarcasmo. Fare dell’ironia il perno del personaggio e poi inondare lui e il contorno con un senso cosmico di perdita e di tristezza.

Senza arrivare al surplus artistico di Chaplin (che faceva tutt’altro tipo di comicità e suonava note diverse sul pentagramma del pathos. Preferisco puntualizzarlo per non rischiare di essere internato), Gervais cerca di seguire le stesse coordinate.

“After Life” si muove lentamente su un arco narrativo rudimentale, che si piega senza spezzarsi sul concetto di reiterazione e di vuoto.

Per tre stagioni seguiamo la storia scarnificata all’osso di un uomo che sta impazzendo dal dolore, rinchiuso in un guscio. La sua metamorfosi in soggetto che risorge attraverso la gentilezza e si rassegna attivamente ad affrontare la sfida all’ignoto, cioè la vita, segue una liturgia che emula la vita vera, e nella vita vera questa liturgia fa anche i conti con il patetismo e la retorica. Gervais non tenta giochi di prestigio per evitare l’uno o l’altra, anzi a volte ci affonda il coltello. Se nelle prime due stagioni gli espedienti retorici diventavano a volte grondanti e smielati, nell’ultima stagione Gervais riesce a trovare la componente cromatica giusta nel variopinto spettro della commozione.

Gervais ama la sua comunità di individui feriti, li umilia per renderli umani perché li ama, e innesca un feeling di empatia spiazzante nei loro confronti. Un rompicapo di emozioni che va dal pietismo alla derisione fino allo stupore davanti alla loro vulnerabilità. Nella sequenza finale li riunisce a una fiera, a bordo di una giostra in un gioioso inno al Carpe Diem, mentre lui, angelo delle loro sorti, si allontana verso il resto della sua esistenza. Risolta o irrisolta? Non si sa, e comunque c’è da dare da mangiare al cane, ci sono cose da fare, una routine da non spezzare. Lo immortala la vecchia macchina fotografica del fidato collega Lenny. La stessa utilizzata per fotografare i derelitti soggetti da impaginare sulla Tambury Gazette. Un’altra ripetizione di un gesto rassicurante. Un unico click, che basta e avanza per la catarsi finale, che è un altro piccolo miracolo di equilibrio fra disperazione e serenità.

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