Su Apple Tv “Boom! Boom! The World vs. Boris Becker”, documentario in due episodi del premiato regista americano Alex Gibney, racconta la storia del grande tennista tedesco tracciandone il percorso di ascesa e caduta, dalla cima del mondo alle galere britanniche

Alex Gibney, considerato uno dei più importanti documentaristi dei nostri tempi, ha fatto con questo documentario quello che il premio Pulitzer J. R. Moehringer ha fatto con il libro “Open”: ha preso la storia eccezionale ma prosaica di un grande tennista, e l’ha trasformata in epica.
Lì era l’americano Andre Agassi, qui abbiamo il tedesco Boris Becker, detto Boom Boom per la potenza esplosiva del suo stile di gioco, il più giovane vincitore del torneo di Wimbledon di tutti i tempi, a 17 anni nel 1985. La parabola descritta nei due fittissimi episodi del documentario parte proprio dall’evento straordinario di questa vittoria che ha ‘definito’ la personalità di un adolescente che ancora la stava costruendo, per arrivare ai giorni nostri, quelli in cui un tribunale britannico stava per condannare il miliardario Boris Becker per bancarotta fraudolenta. Niente di più classico per dimostrare il concetto di ‘ascesa e caduta’, soprattutto perché molti di quanti guardano sanno che Becker è stato effettivamente condannato a due anni e mezzo, otto mesi dei quali ha passato nella prigione di Wandsworth, che si trova a meno di 5 chilometri da Wimbledon, dove tutto è cominciato…

TRIONFO E ROVINA SONO IMPOSTORI E ANDREBBERO TRATTATI ALLO STESSO MODO”
La frase di Rudyard Kipling scolpita all’ingresso del campo centrale dell’England Club di Wimbledon è un’altra mappa per orientarsi nella storia di Becker come è raccontata in questo film, dalla cima del cielo al disastro umano ed economico, che val la pena di essere conosciuta anche da chi, tra i più giovani, non ha mai visto in azione quel cocciuto ragazzone dotato del servizio (allora) più potente del mondo.
Il racconto si snoda tra i campi da tennis, dove Boris giovane e biondissimo si muove tra i grandi campioni strabiliando tutti, la vita privata che prende subito un abbrivio talmente veloce che sarebbe stato impossibile fermare, e i dietro le quinte nei discorsi dei testimoni che presentano il loro punto di vista della storia. A legare tutto c’è lui, imbolsito e imborghesito, 55enne in attesa di giudizio, che al regista invisibile racconta il suo, di punto di vista. Non sempre coerente, Boris però riesce ad essere convincente in ogni passaggio: appassionato, sconclusionato, affabulatore, carismatico, non accusa mai gli altri dei suoi errori, alcuni li riconosce e alcuni li nega, e fa risalire tutto, proprio tutto, al fatto che non scelse lui di vincere il torneo più rinomato al mondo quando era ancora un ragazzino, era il suo destino.

Era il 1985, e lui rappresentava quella che ancora era la Germania Ovest: quando diventò, qualche anno dopo, numero due e poi uno del mondo, fu il pupillo di una Germania riunificata, che lo idolatrava scompostamente al punto di dargli responsabilità che nessun diciannovenne può sopportare sulle sue spalle: per i tedeschi Boris Becker rappresentava in quel momento la riscossa, la rivincita di un popolo che voleva essere visto di nuovo forte e fiducioso in sé stesso.

I TESTIMONI
A dire la loro sulla questione sono chiamati alcuni dei grandi tennisti dell’epoca, ma grandi davvero: Borg, Wilander, McEnroe. Ognuno di loro riconosce i talenti di Becker, le sue incongruenze e i suoi errori, ma tutti in effetti ammettono che la pressione che subì quel ragazzo dall’opinione pubblica della sua gente non l’ha subita nessun altro: il ‘divino’ McEnroe in USA non era così al centro dell’attenzione come lo era Boom Boom in Germania, per esempio. Boris era come Madonna, come Michael Jackson: era diventato un idolo pop, una superstar. E forse una racchetta non è lo strumento adatto per affrontare così tanta vita e passione.

Quanto è difficile per un ragazzino della sua età in semifinale a Wimbledon non perdere il senso della realtà?”
Per un tennista è impossibile avere il senso della realtà.
Queste sono le parole di un altro testimone della vicenda Becker, il suo primo manager, l’ex tennista e imprenditore romeno Jon Tiriac: personaggio ‘favoloso’, latore di frasi sempre memorabili, sentenze sagge, racconti epici. L’uomo secondo il quale Boris Becker non ha realizzato ‘nemmeno lontanamente’ il proprio potenziale come giocatore e come uomo, dà alcune pennellate fondamentali per il ritratto del ragazzo e dell’uomo di cui ci si sta occupando.

Un ritratto che si va definendo e che evidenzia un parallelismo: Boris Becker ha vissuto come giocava. Attaccando, buttandosi (Becker era pazzo, dice di lui Wilander, si ‘tuffava’ su ogni superficie, facendosi male, rischiando tutto: era l’unico giocatore professionista a buttarsi per terra per non mollare nemmeno una palla all’avversario. Era Sigfrido, l’eroe dei Nibelunghi, tutto istinto e niente raziocinio), andando a rete, giocandosi tutto quello che aveva, sempre. Becker non vinceva mai i primi set, era come se si mettesse volontariamente in situazioni estreme, per uscire dalle quali doveva tirar fuori la forza mentale, la volontà, la rabbia che servivano a vincere.
Come Houdini (…) si metteva in situazioni difficili per permettere alla sua forza di esplicarsi al meglio. Conoscendo la sua situazione attuale, mi chiedo se inconsciamente anche nella vita abbia fatto lo stesso, mettendosi nei guai per mettere alla prova sé stesso”.

Anche le donne – sempre bellissime, sempre di colore, via via più giovani e invariabilmente madri dei suoi figli – contribuiscono al ritratto: nonostante siano tutte ex e correggano le versioni a volte fantasiose dei fatti accaduti, parlano con entusiasmo del fascino dell’uomo e con tenerezza della sua difficoltà nel gestire una situazione esistenziale che è rimasta sempre più grande di lui.
Ingenuo forse? O furbo ma non troppo furbo, convinto di essere così importante e forte da essere al di sopra delle leggi e incapace di conoscere il limite?

Mentre si delinea la catastrofe finanziaria dell’impero Becker, il documentario continua a tratteggiare anche la storia dello sportivo, e dell’uomo, raccontando la leggenda del tennis. Perché il tennis ha in sé una dimensione epica, narrativa, è uno sport in cui il giocatore ha tutto sulle sue spalle, sono tutti Sigfrido, e ognuno sempre perde più di quanto vinca. Il tennis è frustrante, ogni storia è la storia di una rivincita, di un risalire e rinascere dalle proprie ceneri, è una storia di scontri di volontà, di resistenza, dove vince chi è più tenace, non chi ha più talento.
E un ragazzo che, prima ancora di capire chi era, è stato un tennista, alla fine ha inevitabilmente vissuto come se ogni cosa fosse la partita di un torneo: mettendocela tutta, barando un po’, prendendosela con l’arbitro quando qualcosa non andava, e soprattutto rialzandosi dopo un tuffo esagerato, e magari vincendo il match con una caviglia rotta.

La parabola di Boris Becker come viene fuori da questo appassionato documento ricorda la poesia di Baudelaire sull’albatro: meraviglioso in volo, è goffo e sgraziato sulla terra, dove caracolla brancolando nel buio della consapevolezza. Finita la carriera di tennista, l’ancora giovane e vitale Becker ha cercato di vivere, ma non sapeva come, nessuno glielo aveva insegnato.

Non è proprio un’assoluzione, ma rappresenta una giustificazione plausibile per i molti errori compiuti, che hanno portato alla situazione di oggi. Che però non è l’ultimo capitolo: finisce il documentario, ma per la partita di Boris Becker non è ancora arrivato il match point.
Perché a Sigfrido puoi anche metterlo in un angolo, anzi probabilmente ci si metterà da solo, ma proprio da quella posizione riuscirà a tirare fuori il suo colpo migliore, e anche l’albatro, dopo essersi poggiato sulla terra, può sempre riprendere il volo. E come ha dichiarato Boris, tra lui e il mondo è parità, ma oggi inizia il quinto set, e ancora non è detto chi solleverà alla fine l’insalatiera d’oro del vincitore.

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