DIECI EPISODI CHE RIPERCORRONO LE GESTA MACABRE DI JEFFREY DAHMER, IL FEROCE SERIAL KILLER IMPOSTOSI NELLA CULTURA DI MASSA COME ‘IL MOSTRO DI MILWAUKEE’. UNA LENTA E METODICA INDAGINE NEGLI INFERI IN CUI IL COLPEVOLE DA SCOVARE È IL MOVENTE PROFONDO, DISPERSO NEGLI ABISSI DI UNA MENTE IMPERSCRUTABILE.

 

DAHMER – MOSTRO: LA STORIA DI JEFFREY DAHMER                   voto 8+

(Netflix)

L’anello mancante

Ce n’è in abbondanza. Di scene cruente, di particolari scabrosi. Nomi, volti, fotografie, oggetti, odori, feticci, carcasse. E tanti anche i luoghi, i colloqui, le parole pronunciate con calma inflessibile dal cannibale necrofilo Jeffrey Dahmer. I verbali delle sue imprese raccapriccianti sono la sezione ritmica che accompagna le scene squisitamente horror. E abbondanti sono anche le polemiche suscitate dalla serie più vista di tutti i tempi su Netflix, accusata di aver avviato un processo di umanizzazione di Jeffrey Dahmer, uno dei più feroci serial killer della storia.

Nel dibattito c’è spazio per tutti, anche per chi sostiene che il prolungato esame della personalità del mostro di Milwaukee tradirebbe l’intenzione dei creatori di mitigarne le orripilanti gesta, di istituire una specie di empatia, di puntare sul fascino del male, mancando quindi di rispetto alle vittime e ai parenti delle stesse.

Una congettura un po’ miope perché non mette a fuoco il vero oggetto della serie. Una detection a tutti gli effetti in cui non si cerca il colpevole. L’anello mancante è il movente profondo che portò Dahmer a uccidere e smembrare 17 uomini in un arco di tempo che va dalla fine degli anni 70 fino al 1991.

Nelle dieci puntate che la compongono, scritte da Ian Brennan e Ryan Murphy – quest’ultimo già creatore di “American Horror Story” e “American Crime Story” – la serie si prende in carico questo irrinunciabile quesito, come se fosse un rebus da risolvere senza trovare una risposta univoca, perché la risposta univoca non c’è.

Un verdetto spiazzante per i tempi che corrono, dove le spiegazioni le troviamo su Google e diventa sempre più difficile convivere con ipotesi appese e dubbi irrisolvibili, anche avvalendosi della psicanalisi, delle Sacre Scritture, oppure di Internet.

Il quesito strisciante si annoda alla fermezza inesorabile della serie, alla scrittura compilativa che interseca flashback e punti di vista tenendo la barra a dritta per 10 ore. Tratta da una storia vera, ma fuori dal recinto delle docuserie, “Dahmer” è un corposo biopic trainato dai tempi e dalle tecniche della fiction americana.

Il fatto che sia un True Crime solletica in automatico la normale e morbosa necessità di un finale risolutivo, utile a scacciare via l’ansia che un assassino del genere si annidi tra i nostri vicini di casa.  E invece no. Ci troviamo di fronte alla negazione di un ending tranquillizzante perché non si riesce a circoscrivere il big bang mentale responsabile di tale mostruosità. Un esorcismo impossibile.

Oltre al movente, il bisogno di delucidazione annaspa alla ricerca del capro espiatorio che ha permesso il reiterarsi dei crimini. Attraversando la galleria degli orrori firmati Dahmer si scopre infatti che la maggior parte dei delitti sono avvenuti in circostanze simili e quindi prevedibili. Si scopre che Dahmer era già conosciuto da tribunali e forze dell’ordine, le sue stranezze erano state registrate a scuola, nei posti di lavoro, all’accademia militare.

Ecco quindi che la serie si evolve in una sorta di dialogo tra testo e contesto. Dove il primo è la descrizione meccanica della crudele furia omicida di Dahmer e delle sue truci azioni, mentre il contesto mette nel mirino la famiglia di Dahmer, le negligenze della polizia, i privilegi dell’uomo bianco, la debolezza sociale della comunità in cui Jeffrey pescava le sue vittime: i locali gay intorno agli Oxford Apartments, la residenza del serial killer situata in una zona non facoltosa di Milwaukee, abitata prevalentemente da famiglie afroamericane, ispaniche e asiatiche non abbienti.

Jeffrey Dahmer è un mostro ma non ne ha l’aspetto. È un ragazzo alto, biondo, flemmatico e piacente. Le vittime vengono a conoscenza della sua ‘weirdness’ e della sua pazzia assassina quando è ormai troppo tardi, e sono già entrate nel suo covo. Dahmer non ha la deforme sgradevolezza di Fritz Honka, il mostro di St. Pauli, protagonista dell’omonimo e disturbante film diretto da Fatih Akin qualche anno fa.

L’aspetto non sgradevole conferisce a Dahmer una protettiva invisibilità, così come sono invisibili e inafferrabili i demoni oscuri che si agitano sotto la sua coltre di rigida introversione. Non c’è niente di sudicio nei preamboli dei crimini commessi dal mostro di Milwaukee, mentre ne “Il mostro di St. Pauli” si mette in scena un circondario non filtrato di emarginati sporchi e brutti.

Mostro – La storia di Jeffrey Dahmer” è principalmente un horror e le sue sequenze più riuscite sono proprio quelle horror, rese ancora più spaventose dalla reiterata applicazione di uno schema da parte del mostro piacente.

Una coazione a ripetere che inizia con la battuta di caccia, prosegue con l’adescamento, continua con l’invito nella propria tana, con l’inserimento della droga nel drink (che a volte avveniva già in discoteca). E poi la tortura, l’uccisione e la dissezione del cadavere, da considerare come l’atto di conservazione della preda nella propria abitazione. Atto di conservazione che diventa supremo quando Dahmer mangia e quindi digerisce, assimila il corpo delle vittime.

Uno schema a cui possono essere riconducibili anche i delitti estemporanei, compiuti al di fuori del rifugio della sua casa delle torture, e prima che Dahmer costruisse un modus operandi. L’ubbidienza tassativa a questo modus operandi svolto all’interno di un clima malsano e tetro diventa il cuore estetico della serie tra i cui registi spuntano anche nomi suggestivi, come la figlia d’arte Jennifer Lynch e l’eterna promessa Gregg Araki.

Un clima insalubre scolpito in una fotografia opaca che punta anche a tirare in ballo i sensi non filmabili. Il ricorrente riferimento al fetore della decomposizione ne è un esempio. Inoltre nell’episodio 6, dedicato a Tony, il ragazzo sordo che quasi ingabbia Jeffrey nel suo romanticismo naif – prima di soccombere all’insopprimibile pulsione omicida del mostro –  è girata in prevalenza ‘dalla parte di Tony’, per cui in assenza di audio. Se ci aggiungiamo anche l’ostentazione sull’avidità tattile di Dahmer che si eccita maneggiando viscere o accarezzando manichini, nonché l’implicito riferimento al sapore della carne umana, o a quello del sangue che Dahmer si scola compiaciuto davanti allo specchio, ecco che la serie di Murphy e Brennan prova a trascinare lo spettatore al centro di un plot multisensoriale.

L’episodio 6 è uno dei momenti in cui lo sguardo della serie, costantemente saldo dietro gli occhiali di Dahmer, slitta sulla traiettoria di un altro personaggio. Un’altra puntata in cui ciò avviene è quella dedicata al padre, interpretato da un monumentale Richard Jenkins, secondo per qualità della performance solamente a Evan Peters, che si cuce addosso al millimetro la parte del protagonista.

Attraverso gli occhi del padre oppure quando la serie passa al setaccio le conseguenze psicologiche di un’intera comunità ferita, il contesto si allarga e circoscrive anche l’eterno conflitto tra forze dell’ordine e comunità afroamericana (Dahmer viene catturato nel maggio del 1991, due mesi dopo il pestaggio di cui fu vittima Rodney King per mano e manganelli della polizia di Los Angeles), mentre il genitore si fa catalizzatore di un’indagine in seno alla famiglia, alla vana e morbosa ricerca di un segreto illuminante. La famiglia disfunzionale, un padre assente, una madre con manie suicide, l’hobby precoce della tassidermia, la repressione dell’omosessualità: nessuna delle tessere del puzzle soddisfa, tuttavia, la ricerca del movente profondo e nemmeno una semplicistica somma algebrica delle tessere stesse è sufficiente a comporre un quadro mentale da cui possa scaturire la ferocia di Dahmer.

Certo, il mostro agiva come se fosse schiacciato da una perversa paura dell’abbandono. Incapace di relazionarsi con gli altri, terrorizzato dal perderli, si nutriva (letteralmente) del bisogno di controllare i suoi oggetti del piacere, di dominarli appropriandosi della loro coscienza e dei loro corpi. Un feticista necrofilo incapace di avere un rapporto sessuale con un essere umano vivo.

Ma all’interno della narrazione ad ampio respiro che aggiorna di continuo la sua tabella di marcia con testimonianze, processi, nevrosi e ricordi d’infanzia, questa paura dell’abbandono, o la disperata solitudine che ha pervaso la vita di Dahmer non sono la causa primaria, che rimane ignota. La miccia del male primordiale rimane nascosta nel buio dei misteri insondabili, ed è bruciata insieme al cervello di Jeffrey Dahmer che la madre voleva destinare ai laboratori di ricerca.

 

L’ALGORITMO UMANO CONSIGLIA:

Il mostro di St. Pauli

(Disponibile per il noleggio su Amazon, Chili, Apple Tv, Rakuten)

Negli anni 70, in un quartiere degradato di Amburgo, frequentato da alcolizzati e prostitute, il serial killer Fritz Honka raccatta donne solitarie in un sudicio bar, il Golden Glove, per portarle nel suo minuscolo appartamento dove le uccide, le taglia a pezzi e ne conserva i resti. Fatih Akin entra negli anfratti di un mondo emarginato e ne restituisce l’inguaribile e scabrosa decadenza. Un ritratto respingente, volutamente sgradevole di un relitto umano e delle sue vittime. Un’umanità scartata dal diritto di cronaca e intrappolata in un inferno sommerso.

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